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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile. [/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
Quello di oggi, più che un peperone, è un peperoncino. Un preludio a quello che tutto, poi, sarebbe diventato, alla piega che molte cose avrebbero preso con lo scorrere degli anni e l’intensificarsi di questo fantomatico progresso, che molto ha di frainteso e fraintendibile.
Correva l’anno 1984 e Ridley Scott, uno dei più grandi registi del cinema contemporaneo, in occasione del Super Bowl di quell’anno, il grande evento di football americano che riunisce negli stadi e davanti agli schermi milioni di spettatori al minuto e famosissimo per i suoi intermezzi pubblicitari fuori dal comune, riempiti da commercial pensati appositamente per l’occasione ed eccezionalmente più lunghi di un normale spot televisivo, diresse per il colosso Apple Inc. un corto pubblicitario ispirato a 1984.
Il supercorto passò alla storia, non solo della pubblicità, ma anche del cinema.
Perché quello che stava facendo, per molti versi, con il suo pacchettino di 60 secondi, era segnare un momento di svolta. Un momento che annunciava il velocizzarsi delle cose, il loro dinamizzarsi, ridursi, accorciarsi, minimizzarsi, esplodere come tanti piccoli e istantanei petardi. Sempre di più, sempre di più. Quasi invasate, ubriacate dall’innovazione, o meglio, dalla novità, come in un futurismo postmoderno. 1984, da libro era diventato film e, ora, diventava un minifilm, uno spot, qualcosa che potevi riassumere in poche manciate di attimi, un concentrato di concentrato. Come se fosse finito vittima della stessa storia di semplificazione che racconta. Una semplificazione delle idee, per una semplificazione del pensiero. Fino a diventare tanto semplice da non poter più concepire qualcosa di complesso.
Presto, tutto sarebbe diventato uno sponsor. Tutto sarebbe diventato portatile. Tutto sarebbe diventato uno snack. Un assaggio. Un trailer. Un teaser. Un’anteprima. Una monodose. Un last minute. Un break. Un weekend corto. Un mini-contratto. Un resumé. Un byte al secondo. Un’alta velocità. Una chat. Uno smart. Presto tutto sarebbe diventato il più breve possibile. Il più veloce possibile. Il più indolore possibile. Il più tecnologico possibile. Il più leggero possibile. Il più fruibile possibile da più persone possibili nel minor tempo possibile. Spiaccicato contro il limite del possibile e, soprattutto, del tollerabile, a esasperarlo, a disumanizzarlo, fino a che le cose e gli istanti non sarebbero diventati così corti da non esistere più. La grande macchina del cinema sarebbe entrata tutta dentro uno smartphone. La grande letteratura sarebbe stata compressa dentro uno schermo retroilluminato. La grande musica dentro un circuito. E le persone, ormai in balia di ciò che loro stesse avevano creato, sarebbero diventate sinapsi di oggetti tecnologici, paroline su uno schermo, foto profilo, pixel intangibili.
E il grande colosso Apple sarebbe giunto a liberare le menti di tutti, con i suoi mille “io” portatili, scorrazzati a destra e a manca finché non hanno cominciato loro stessi a inseguirci, anzi, a perseguitarci. ioPod, ioMac, ioPad, ioComputer, ioTelefono, io Software, io che non ho un nome e sono solo io, come tanti altri mille, tutti uguali, ma resi liberi dai microchip e dalle grandi reti che unificano il mondo, che ci fanno sentire tutti più vicini a tutti, anche a quelli che non conosciamo o a quelli che un tempo conoscevamo e adesso hanno solo volti piatti e scintillanti.
Curioso come il 1984 di Ridley Scott sia stato il preludio di se stesso. La veloce metafora della lenta e inesorabile menzogna che sarebbe stata raccontata, di una liberazione che non è mai avvenuta.
Quella velocità non ci ha mai regalato nessun momento in più. E quella connessione non ci avvicinato in alcun modo. Troncare i fili e abolire le barriere non ci ha reso liberi, ma solo schiavizzati da una comodità che dà assuefazione. Quell’accesso illimitato a informazioni di ogni genere non ha aperto nessuna mente. E quello stesso Grande Fratello che la Apple Inc. ha distrutto dentro la lente di Ridley Scott si è riversato in tutti quegli “io”, e in ognuno di noi, controllati e spiati fino all’ultimo byte. E felici di esserlo.
La neolingua degli snap, delle chat, dei giga e dei byte, dei net, mag, smart, set up, download, tweet, pin, tag, dot, pad, touch, com, at, box, click, e-, wi-fi, app si è in ultimo manifestata. E chi meno ne ha, più ne tolga.
Incapaci di sostare davanti a qualunque cosa persona pensiero per più di qualche insopportabile secondo, talmente veloci da essere ormai cancellati dallo spazio e dal tempo, ma incisi nei registri di qualche superpotenza mondiale, liberi di non pensare e pensando di essere liberi, siamo ormai troppo affezionati ai nostri profili per decidere di ricominciare a guardare in faccia le cose, ridare a “progresso”, “rivoluzione”, “informazione” il significato che gli spetta, rallentare, sostenere uno sguardo, allungare i tempi, ritrovare il gusto della staticità, del fisso, dello sconnesso, capire cosa significhi davvero progresso, cosa sia stato davvero rivoluzionario, riappropriarci di un nome. In una parola, tornare ad essere liberi.