Fusione Fiat: “Non conta sede ma posti di lavoro”, è il virgolettato attribuito a Enrico Letta da un quotidiano nazionale, amputato degli articoli determinativi per esigenze di spazio. Meglio ancora, la forza telegrafica non fa che aumentare la forza del messaggio.
di Angelo Miotto
Eppure, con ancora nelle orecchie le parole dell’economista Paolo Leon intervistato ieri sera da Omar Caniello a Radio Popolare sul caso Electrolux, leggere la notizia del nuovo brand, della sede si dice olandese e del fisco in Gran Bretagna non può che far scattare un’associazione di idee immediata.
Ci arrivo in un attimo, ma prima raccontiamo un aneddoto.
Quando voglio discutere, mai animosamente, ma con decisione con il mio amico M. c’è un argomento che da anni è una miccia a combustion rapida. Le sperequazioni salariali e il confront fra salario base e i profitti dei top manager.
Nei giorni scorsi Pagina99 ha pubblicato un’infografica che ha fatto un bel giro dei social: ha un valore simbolico, non basta l’infografica in questione per fornire tutta l’informazione necessaria per avere un giudizio che non sia quello immediato che proietta la condizione di molti – quella diversa da un guadagno così enorme – fin dentro una reazione quasi convulsa e di pancia. Mal di pancia. Ora, M. sostiene che nel settore privato, dentro un’azienda che produce profitti e che vive nel mondo del capitale non è uno scandalo il numero di zeri che seguono le cifre delle retribuzione del top manager, in questo caso era Sergio Marchionne. Se uno li vale, se glieli danno, perché no?
Confesso che nessuno dei due vuol mai rinunciare al suo punto di vista: il mio va oltre a una considerazione che affonda nelle radici storiche dell’egualitarismo, e anche volendo rinunciare a quello che per molti è un vezzo da esemplare preistorico, la considerazione che non riesco mai a reprimere è: “Ma cosa significa che una persoa vale tutti quei soldi?”. Dove il mio stupore è nel fatto che se una differenza esiste – ed esiste – fra chi ha accumulato studi, esperienza e doti personali, colpi di fortuna o abilità nell’arrampicare, come si fa a dare un valore così immensamente divergente a due esseri umani, uno alla catena e l’altro al top?
Non ci dovrebbe essere un tetto, un limite, per la sanità mentale della comunità, un riconoscere che tanti soldi sono tanti soldi e che oltre una montagna di soldi c’è solo la perdita di valore, del senso, delle coordinate che legano tutti – poveri e anche ricchi – a una condizione il più possibile comune se non condivisa della loro esistenza sul globo? M. non è d’accordo, non c’è limite se qualcuno è disposto a riconoscere anche due o tre montagne di soldi. E molti credo siano d’accordo con lui. Mentre io continuo a pensare che abbiamo perso diverse coordinate di quello che dovrebbe imbrigliare una bestia feroce, il capitalismo, che per definizione è senza freni, fatto da persone senza freni, assoluto e incontrastato vincitore dell’imposizione dei propri principi nelle dottrine economiche e finanziarie di troppe ‘democrazie’.
Fine dell’aneddoto. Che ci porta al caso Fiat di queste ore. La Fiat si fonde e conia un nuovo marchio, sceglie una sede all’estero, si dice, e comunque le tasse le vuole pagare in Gran Bretagna. Ma quanto è anche nostra la Fiat? Il Fatto quotidiano oggi:
Dal 1977 a oggi, la Fiat ha ricevuto l’equivalente di 7,6 miliardi di euro dallo Stato, e ne ha investiti 6,2 miliardi: è la Cgia di Mestre a fornire le cifre su tema spesso dibattuto a proposito della casa torinese, cioè il “saldo” tra aiuti pubblici ricevuti e capitali impiegati nell’economia nazionale.
Detta così è facile. Gli interventi andrebbero contestualizzati uno per uno. Ma sempre soldi dello Stato sono. E senza essere patriottico il pensiero corre inevitabilmente al fatto che se lo Stato c’è, non può essere attore solo nel prelevare o imporre, ma anche del difendere un patrimonio comune. Stesso discorso per Electrolux, dove l’odiosità del ricatto salariale è una cartina di tornasole perfetta dell’arretramento non solo dei diritti sindacali, ma anche dell’inefficacia del governo, dei governi, nazionale e delle istituzioni europee che fanno un gran parlare di cittadinanza e Inni alla gioia, per poi rimanere ostaggio di interessi che hanno a che vedere con banche e gruppi di interesse, più che con il benessere dei cittadini dell’Unione.
Alla fine, questo rapporto di forza – obietterà qualcuno – lo dobbiamo subire, perché non si riesce a reagire: i lavoratori accetteranno tagli del 30% degli stipendi, piuttosto che non guadagnare, Fiat farà le politiche del capitalismo egoista, il governo potrà anche fare la voce grossa, ma il gioco è un dejà vu che a volte viene rimosso, tanto è irritante.
È esattamente lì che dobbiamo riprendere uno spazio non solo di contestazione, ma di consapevolezza, e per chi ci crede e per chi accetterà di esprimere un voto con quello che sta emergendo come degno successore della legge porcata: un sistema elettorale con sbarramenti venduti nel nome della stabilità e premi di maggioranza decisi da chi sa o crede di essere uno dei due possibili beneficiari. Ma sei hai meno del 4% in Italia, conti come il due di bastoni?
Solo la politica potrebbe incidere, ma la buona politica che fa solo sognare, prima o poi, una tabula rasa. Il futuro del nostro paese passa anche dalla credibilità e dalla difesa di realtà produttive che hanno fatto storia, dalla capacità di imporre una seria e competitiva politica industriale e difesa di una ricchezza stratificata. E dal difendere il marchio di fabbrica, made in Italy, perché senza il sudore di Mirafiori, non bastavano i boccoli bianchi dell’Avvocato e le sue rughe di piacevole vita a far grande un marchio. E senza gli aiuti della collettività, lo Stato, non avrebbe potuto essere competitivo, per fare solo un esempio, negli anni 80 quando i governi si spinsero in soccorso del settore.
Ecco perché conta anche la sede, oltre ai posti di lavoro. Conta eccome.
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