Dagli orti urbani ai conventi aperti, dai centri d’accoglienza autogestiti agli sportelli sul diritto d’asilo. Venerdì 31 gennaio è stato il giorno delle presentazioni tra le diverse realtà e gruppi partecipanti alla Carta di Lampedusa, riunite sull’isola per affermare nuovi diritti e libertà di movimento
di Giulia Bondi, da Lampedusa
1 febbraio 2014 – Ci sono Fabio da Pisa e Ali dal Ciad, che presentano agli studenti del liceo scientifico la loro esperienza di autogestione di un centro di accoglienza. C’è Sami, arrivato dalla Germania insieme al gruppo “Lampedusa in Hamburg”, per rivendicare un permesso di soggiorno umanitario valido in tutta Europa, che permetta di lavorare per guadagnarsi degnamente da vivere.
C’è Mariangela, arrivata dalla Puglia per raccontare di un convento di Ostuni che ha aperto le porte ai migranti. Ci sono i centri sociali di Bologna, di Reggio Emilia, di Rimini che si battono per il diritto alla casa occupando palazzine e condomini. E poi orti urbani. Squadre di calcio. Sportelli informativi sul diritto d’asilo. Manifestazioni per la chiusura dei Cie. Esperienze fatte “con” i migranti e non “per” loro. Anni di lavoro concreto, imparando insieme, gli uni dagli altri.
Scende qualche goccia di pioggia, sull’isola di Lampedusa, mentre nella sala conferenze dell’aeroporto comincia a riunirsi un’Italia che cerca di accogliere davvero. Si alternano al microfono per presentarsi, nel primo giorno dei lavori per la “Carta di Lampedusa”, le associazioni e i gruppi riuniti sull’isola siciliana per formulare nuove proposte sulla libertà di movimento e i diritti nello spazio europeo e mediterraneo.
CAMPAGNA DI LAMPEDUSA IN HAMBURG
“Come direbbe Alex Langer, noi siamo saltatori di muri, traditori della compattezza etnica”, sorride Fabio, che a Pisa è stato protagonista, insieme a undici giovani del Ciad e tante associazioni cittadine, dell’esperienza di accoglienza autogestita descritta nel documentario “CiaLiLaPi”. La mattina, ha raccontato la propria storia ai ragazzi del liceo scientifico riuniti nell’aula magna, seri e attenti nelle loro felpe colorate, i ragazzi con le barbe fresche da diciottenni.
“Prima ci hanno privato della libertà e trattato in modo completamente assistenziale, e poi ci hanno lasciato senza documenti e senza possibilità di lavorare”, ricorda Ali. “Ma è a voi italiani che non conviene questa politica. Io sono stato fortunato perché avevo degli amici, ma gli altri come fanno? Sono queste leggi assurde che poi portano alcune persone a rubare e a spacciare”. Ali è critico anche verso la stampa: “Inutile stupirsi ogni volta per gli scandali, basterebbe entrare nei centri per vederne a decine, di trattamenti disumani”. Con l’autogestione del centro in cui viveva, Ali si è sentito “di nuovo una persona, e non un numero” e ora è a Lampedusa per contribuire a proporre un sistema di accoglienza come quello che ha cercato di costruire assieme agli amici pisani.
“Non si può separare la lotta per i diritti di chi scappa, e vede Lampedusa come una zattera nella sua ricerca di una vita migliore, dalla battaglia per i diritti di chi si trova a vivere ogni giorno su questa linea di confine”. Così il sindaco di Lampedusa, Giusi Nicolini, saluta i partecipanti all’assemblea, riuniti nella sala conferenze più grande dell’isola, stipata di persone. Gli iscritti al meeting sono circa 160, ma le presenze superano le 200 persone.
Il sindaco Nicolini ricorda “lo stupore del Papa, quando è venuto qui, di fronte a una comunità così piccola ma così capace di accogliere” e rivendica “non una nuova politica migratoria, ma una nuova politica per il Mediterraneo: l’Europa – dice – non può continuare a difendere come una fortezza il proprio modello economico, fortemente in crisi. Deve avere il coraggio di progettarne un altro, sostenibile, che garantisca anche nuove forme per il diritto di asilo”.
Il pomeriggio è dedicato agli interventi dei lampedusani: dopo il sindaco tocca al presidente dell’associazione piccoli imprenditori, che ricorda i disagi, le difficoltà di collegamento con l’Italia, i costi esorbitanti per le cure sanitarie, la propaganda mediatica che ha danneggiato l’immagine dell’isola. Poi parla Giacomo Sferlazzo, del collettivo Askavusa. Ci tiene a precisare che non interviene “a nome dei lampedusani”. “Io – spiega – sono anticapitalista, non è una posizione di tutta l’isola”. Rivendica l’importanza di “chiarire quello che è accaduto il 3 ottobre, nel naufragio che ha riacceso l’attenzione del mondo sulla questione dei migranti”. Ha parole dure sulle contraddizioni dell’Europa e dell’Italia, su chi “si commuove davanti alle bare ma non fa nulla perché smettano la produzione delle armi e le guerre chiamate umanitarie”.
Infine, è il turno di due giovani africani: Sami, che vive ad Amburgo, e di nuovo Ali, da Pisa. Entrambi arrivati nel 2011, in fuga dalla Libia in guerra. “Non posso dirvi quante emozioni mi dà rivedere questo mare dove sono sbarcato”, sospira Sami. Non parlano del passato, ma del futuro. “L’Europa deve capire che non ce ne andremo, che se siamo qui è anche a causa delle sue politiche verso il continente africano”, afferma ancora Sami: “Se avessimo potuto vivere in Africa lo avremmo fatto. Ora non vogliamo assistenza, ma il diritto di lavorare, per costruirci una vita dignitosa”.
Il dibattito sui contenuti della Carta comincerà sabato 1 febbraio, ma tanti argomenti, dalla militarizzazione al business dell’ “accoglienza”, sono già sul tavolo. “Avevamo la preoccupazione di arrivare a Lampedusa come gli ennesimi invasori”, spiega Nicola Grigion, di Melting Pot, e invece siamo già meravigliati e sorpresi di come la popolazione ci sta trattando”.
A lavorare sulla Carta, sabato mattina, ci sarà anche una classe del liceo accompagnata da un’insegnante. E forse è proprio di una studentessa, Carmen, la sintesi più semplice della prima giornata lampedusana. “Non so bene cosa potrei proporre per la Carta, ma quello che penso – dice sorridendo – è che ognuno dovrebbe essere libero di viaggiare. Questo sì che sarebbe giusto”.