Inno alla Jugoslavia: una canzone, un calciatore, un paese che scompare
di Christian Elia
1 febbraio 2014 – Satira e Metafora sono due fuoriclasse. Una coppia d’attacco, di quelle che sanno incrociarsi in profondità, tagliando a fette le difese avversarie. Una di quelle coppie dove l’intesa o la giocata solitaria producono lo stesso risultato: il trionfo delle idee, la realizzazione della rete.
I grandi tecnici, però, hanno sempre spiegato che senza una buona difesa, capace di leggere i messaggi che le coppie d’attacco avversarie si lanciano, o capaci di proteggere le reti realizzate dal proprio attacco, non si vince.
Una versione sportiva del mito di Cassandra, dove i segnali vanno interpretati, non potendo essere chiari per capriccio degli dei. Una capacità di interpretazione che spesso riposa dove meno te lo aspetti, magari in una band rock, ironica e tagliente.
Questo è stato, a metà degli anni Ottanta, nella Jugoslavia, il ruolo degli Zabranjeno Pusenje (Vietato fumare), gruppo fondato all’inizio degli anni Ottanta un gruppo di amici che frequentavano lo stesso liceo di Sarajevo e che vivevano nella stessa via, Fuada Midzica nel quartiere di Kosevo. Tutti i suoi componenti erano collegati anche alla trasmissione televisiva Top Lista Nadrealista.
Tanti i loro pezzi e le loro scene in tv che hanno, con una lucidità che lascia a tratti sgomenti, anticipato il dramma che stava per colpire il Paese; quella guerra assurda e fratricida che non avrebbe mai più potuto rendere possibile la Jugoslavia della fratellanza. Un’analisi lucida e profonda, nostalgica e ironica, di un mondo che scompariva tutto attorno a un gruppo di ragazzi che la storia faceva crescere troppo in fretta.
Nel loro grande repertorio, per questo blog, ho scelto di ricordare una canzone, dal titolo Nedelja kad je otiš’o Hase (La domenica che Hase è andato via). Brano del 1987, che racconta l’ultima partita con la maglia del FK Sarajevo di Asim Ferhatovic, centravanti icona della squadra bosniaca. Una domenica del 1967, quando i membri della band erano poco più che bambini, il bomber che aveva rifiutato i soldi dell’Europa per la sua Sarajevo salutava I tifosi dello stadio Kosevo, nel quartiere dove si è formata la band.
Composero il brano alla morte di Ferhatovic, il 25 gennaio del 1987, mentre tutto attorno la Jugoslavia si infiammava, lentamente e inesorabilmente. Morto il Maresciallo Tito nel 1980, i nazionalisti delle varie repubbliche soffiavano sul fuoco del separatismo e dell’odio.
Il testo di questo brano, raccontando l’ultima partita di un mito della loro infanzia, è un lungo addio alla Jugoslavia. Perché al di là del salutare un grande calciatore, salutano quel sentirsi tutti uniti attorno a un simbolo, come lo erano stati Tito, la Resistenza contro il nazismo, la fratellanza della Jugoslavia.
“Fratello, non posso giocare per i soldi e stare a sentire come devo giocare, posso giocare solo a Sarajevo”. Nei pressi dello stadio Kosevo di Sarajevo, che oggi porta il nome di Asim Ferhatovic Hase, una scritta su un muro ricorda la frase attribuita al calciatore in risposta alla domanda sul perché avesse deciso di non giocare in Europa.
La malinconia verso un periodo dove i cuori riuscivano a battere all’unisono, come allo stadio, per un sogno che unisce anche persone diverse. Un significato della canzone che gli stessi autori non hanno mai smentito, con il coro finale, da brividi, nel quale la folla urla ‘’Jugoslavia, Jugoslavia”. Un grido struggente, che nelle parite del calcio degli anni successive diventerà ruggito di rabbia, ma che per quei ragazzi rappresentava l’urlo disperato di una generazione intera.
Che andava verso una guerra che non voleva, ma che gli sarebbe toccato combattere. Un inno alla condivisione, all’unione attorno a un comune sentire, che purtroppo restò inascolato. Salutavano Hase, soprannome di Ferhatovic, salutando la loro giovinezza, la casa comune, poco prima che iniziasse a bruciare.
p.s. grazie a Francesca Rolandi, che mi ha fatto conoscere gli Zabranjeno Pusenje e molto altro ancora
p.s. II Consigli per la lettura: il 27 gennaio, Giorno della Memoria, da ricordare leggendo un gran libro. Dallo scudetto ad Aushwitz – Storia di Arpad Weisz. Scritto da Matteo Marani, edito da Aliberti, racconta la storia dell’uomo che ha vinto lo scudetto con l’Inter nel 1929-30 – il primo della Serie A come la conosciamo ora – e di altri tre titoli nazionali col grande Bologna. Oltre al Trofeo delle Esposizioni, la Champions League dell’epoca, conquistato contro i maestri del Chelsea. Era il 26 ottobre 1938 quando il protagonista di questo libro si dimise da tecnico del Bologna che aveva portato a dominare il calcio in Italia. A lui, Arpad Weisz, ebreo, e ai suoi famigliari, non fu più permesso di vivere in Italia dalle leggi razziali promulgate da Mussolini. Il 10 gennaio 1939, insieme ad altri profughi, si rifugiò in Francia passando dal valico di Bardonecchia. Da Parigi si spostò in Olanda, nella cittadina di Dordrecht, dove per quasi due anni fece l’allenatore prima di essere deportato in un lager senza ritorno.