E’ un film di eccezionale interesse per i retroscena che svela per la capacità di destrutturare le immagini iconiche con le quali Israele si presenta agli occhi del mondo
di Monica Macchi, tratto da NenaNews
5 febbraio 2014 – The Gatekeeper di Dror Moreh racconta la storia di Israele dopo la Guerra dei Sei Giorni del 1967 da un punto di vista fino ad oggi nascosto, una prospettiva insolita e affascinante raccontata dagli insider, cioè direttamente dai capi dello Shin Bet (o Shabak acronimo di Sherut Bitahon Klali cioè Servizio di sicurezza generale), che è l’organizzazione preposta alla sicurezza interna, con compiti di informazione e sorveglianza in Cisgiordania e a Gaza, mentre il Mossad è preposto alle missioni di spionaggio e controspionaggio all’estero, e Aman rappresenta il servizio di intelligence militare. In base allo statuto, lo Shin Bet, i cui capi rispondono direttamente al primo ministro e non fanno parte della struttura di comando militare del paese, “è al servizio dello Stato di Israele: lo protegge dalle minacce di terrorismo, spionaggio, sabotaggio, eversione e protegge il segreto di Stato”.
Nel 2001 Moreh era direttore della fotografia per la campagna elettorale del Likud ed in questa occasione ha seguito (l’ex premier Ariel Sharon) e il suo entourage non solo sulla scena pubblica ma anche nel privato della fattoria del Negev dove è stato poi sepolto. Il rapporto è poi proseguito e si è trasformato in “Sharon: an inner journey from war to peace”…
…Ebbene l’idea per “The Gatekeeper” è nata proprio mentre Moreh girava questo documentario e man mano si rendeva conto di come lo Shin Bet avesse influenzato la decisione di ritirarsi da Gaza; ha poi preso definitivamente forma dopo aver visto “The Fog of War” il documentario di Errol Morris che ha vinto l’Oscar nel 2003 e che racconta la storia dell’America vista attraverso gli occhi di Robert S. McNamara, Segretario della Difesa. Moreh ha iniziato allora a contattare i vertici dello Shin Bet, fino ad arrivare a Ami Ayalon, all’inizio contrario, poi titubante, alla fine così convinto del progetto che non solo ha accettato l’intervista ma l’ha anche aiutato a contattare e coinvolgere gli altri e ha addirittura partecipato alla prima in Israele.
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Il film che ne risulta è un ritratto complesso e composito che si dipana affrontando alcuni degli episodi più controversi della storia israeliana ed è diviso in sette capitoli:
No Strategy, Just Tactics sul ruolo crescente dello Shin Bet in seguito alla Guerra dei Sei Giorni e all’occupazione dei Territori Palestinesi
Forget About Morality sul dirottamento dell’autobus 300 che è costato il posto ad Avraham Shalom “capro espiatorio” che ha così salvato il governo di Itzhak Shamir
One Man’s Terrorist Is Another Man’s Freedom Fighter sul processo di pace dopo gli Accordi di Oslo
Our Own Flesh and Blood sul terrorismo interno: dallo smantellamento della Mahteret Ha-Yehudit, (rete eversiva ebraica che nei primi anni Ottanta voleva fare saltare in aria la moschea di Al-Aqsa), all’assassinio di Rabin del 1995 da parte dell’estremista di destra Yigal Amir.
Victory Is to See You Suffer sui negoziati con i palestinesi durante la Seconda Intifada
Collateral Damage sull’omicidio mirato di Yahya Ayyash “l’ingegnere” (e la “moderata pressione fisica” “applicabile” ai militanti di Hamas) e sulla “dottrina Dahiyah”, che postula una guerra condotta il più possibile dal cielo con l’obiettivo di colpire le infrastrutture civili di Gaza
The Old Man at the End of the Corridor sull’impatto etico e strategico delle attività dello Shin Bet sullo Stato di Israele
Si tratta di un film narrato non solo dal punto di vista israeliano, ma da chi ha avuto la responsabilità di prendere decisioni autorevoli: è la prima volta che a rivelare e discutere le tattiche dello Shin Bet sono gli stessi che hanno costruito la loro carriera sulla sicurezza e difesa di Isreale; addirittura il regista è riuscito a coinvolgere nel film Yuval Diskin mentre era ancora in servizio (cosa questa che ha suscitato dubbi e critiche circa la neutralità politica di quelli che sono comunque a tutti gli effetti funzionari dello Stato). Inoltre molti di loro sono oggi protagonisti della vita politica israeliana: Avi Dichter, è l’attuale ministro della sicurezza nazionale per il partito Kadima, Yaaqov Peri è un deputato di Yesh Atid e Ami Ayalon è stato deputato laburista fino al 2009.
E’ arduo etichettare come “proveniente da nemici di Israele “o “antisemita” il paragone tra le Forze di Difesa Israeliane e i nazisti ora che lo fa, pur con alcune riserve, Avraham Shalom, né liquidare come di “ebrei che odiano se stessi” la profezia di Yeshayahu Leibowitz sugli effetti corrosivi dell’occupazione e sul suo potere di trasformare Israele in uno “stato Shin Bet”, quando Yuval Diskin afferma le stesse cose. Infatti molti altri film hanno mostrato alcune critiche alle politiche israeliane dall’interno ma “The Gatekeeper” lavora su un livello più profondo perché mina e destruttura le più potenti e persistenti immagini iconiche su cui è costruita Israele: la sicurezza, declinata in chiave militare come criterio di legittimazione condiviso; la sovrapposizione semantica tra ebreo-israeliano-sionista-antisemita, e la divisione tra falchi e colombe.
Come scrive Said “il potere di narrare e parallelamente di impedire ad altre narrative di affermarsi è cruciale per l’imperialismo e per la costruzione dell’identità” al punto tale che i palestinesi hanno dovuto dimostrare che esistevano: così ad esempio il film di Mustafa Abu Ali del 1974 “ليس لهم وجود ” (“Laissa lahum wujuud” cioè “Loro non ci sono”) è una esplicita risposta all’affermazione di Golda Meir che in una intervista al Sunday Times del 15 giugno del 1969 ha dichiarato: “Non esiste qualcosa come un popolo palestinese.non è che siamo arrivati per cacciarli via e impossessarci del loro Paese.semplicemente loro non esistevano”. E all’ultimo BPFF (Festival del cinema palestinese di Boston) è stato presentato “The great robbery” che racconta il saccheggio e la distruzione di circa 70.000 libri palestinesi durante la guerra del 1948: per i palestinesi raccontare la loro storia collettiva ed individuale è diventata un’esperienza di lotta e resistenza come dimostrano i diversi progetti di storia orale, legati soprattutto al teatro.
E del resto è stata proprio la rottura rispetto al discorso ufficiale cioè l’aver mostrato l’espulsione forzata dei palestinesi ad aver provocato l’ostracismo nei confronti di “Route 181” (Belgio, Francia, Germania, Gran Bretagna, 2004) che fa emergere le tracce di quel passato come la scena in cui i due registi incontrano una coppia israeliana diretta al bosco di Lavie che cartina alla mano scoprono trattarsi di Lubieh, un villaggio arabo distrutto.
Addirittura in Francia si è scomodato l’allora ministro della cultura Jean-Jacques Aillagon per cancellarlo dall’inaugurazione del XXVI festival del documentario a Parigi con il pretesto che “poteva favorire azioni antisemite e fobie anti-ebraiche” e persino Liberation l’ha attaccato in quanto “documento che mostra l’odio da una parte e lo stato di guerra permanente dall’altro”; solo una fortissima presa di posizione di cineasti come Jean-Luc Godard e Jacob Berger, del Sindacato dei Registi e l’intervento di presidenti di Festival Intenazionali, Daniel Lafond dal Festival di Montréal e Marina Mottin dal Festival di Friburgo) ne hanno permesso la successiva visione.
A partire da Jaffa: The Orange’s Clockwork (Israele, 2008) c’è stato un profondo dibattito sulle immagini iconiche con cui la storiografia ufficiale e il pensiero unico hanno rappresentato Israele ma che paradossalmente sono diventate invisibili proprio in quanto iconiche: si guardano ma non si vedono più visto che, per riprendere l’immagine di “simmetrie redentive” di Edward Said, le storie di diaspora portano con sé una mitizzazione del passato come luogo da cui attingere e su cui proiettare legittimazioni che derivano da verità assolute. Così in questo documentario viene smontata pezzo a pezzo l’iconografia dell’agrume più famoso, quelle “arance Jaffa” che costituiscono la base del mito sionista di una terra desolata e disabitata dove è stata introdotta la modernità che assume la forma di “aver fatto fiorire il deserto, rivelando una storia dimenticata di quando, negli anni ’20, arabi ed ebrei lavoravano insieme. Le arance sono state monopolizzate in un brand sionista9 che porta Syvan a riflettere sui meccanismi del colonialismo destrutturandolo come evento che appartiene all’umanità e non allo specifico passato israeliano letto in termini eccezionalistici. In questo modo come delinea Pasolini nei suoi scritti, il cinema si rivela lo strumento attraverso cui il passato può essere rivisto in quanto “il cinema riproduce la realtà, ma in una maniera nuova e speciale come se alcuni meccanismi d’espressione non fossero apparsi che in questa nuova situazione riflessa”.
The Gatekeeper sceglie così un approccio particolare alle immagini pur ruotando attorno alla componente verbo-centrica delle interviste: qui domina il primo piano fisso che nella sua staticità esalta l’attenzione alle parole, agli sguardi e ai gesti, persino all’accenno di sorrisi e innesca meccanismi di proiezione ed identificazione: il volto diventa così una mappa da decifrare come sostenevano già Ejzenstein (“con l’aiuto del primo piano lo spettatore penetra nell’intimità di ciò che succede sullo schermo”11) e Balzas (“è la drammatica rivelazione di ciò che realmente si nasconde nell’apparenza di un uomo”).
Ma Moreh va oltre scegliendo di inquadrare anche i silenzi, indugiando quando la risposta è finita, con un effetto straniante e simbolico amplificato da un montaggio che contrappone urla, spari, bombe e slogan martellanti. Si susseguono una serie di ritratti che fanno emergere dubbi, scrupoli, emozioni contrastanti, rimpianti, aneddoti, (come il battaglione spedito a fare un corso di arabo dopo che durante una perquisizione hanno urlato ai gazawi “Siamo qui per castrarvi” invece di “Siamo qui solo per contarvi”), considerazioni (il regista che non è mai presente in scena se non attraverso l’aspettare, si lascia andare ad una risatina solo di fronte all’affermazione: “Quando si va in pensione si finisce per diventare di sinistra”) inserendosi in quel filone documentaristico in cui il cinema diventa uno strumento politico13 dove l’identità, la coscienza di sé e l’etica della responsabilità del regista sono esplicitate a priori e costantemente ribadite.
Un filone che acquista sempre più risalto in Israele come dimostra anche il successo di שלטון החו (“The law in these parts”) che esplora il lato giuridico dell’occupazione cioè quel complesso sistema di ordinanze e leggi che ha permesso la creazione di insediamenti14, che ha giustificato la confisca delle terre e ha fornito una base per l’arresto e la detenzione amministrativa di migliaia di palestinesi e in cui i giudici stessi ammettono che questo sistema giuridico “ha il compito di mantenere l’ordine, non solo la giustizia che non sempre vanno di pari passo”. Ebbene, nel discorso di ringraziamento per la vittoria al Festival di Gerusalemme nel 2011, il regista Ra’anan Alexandrowicz ha tracciato un parallelo tra il processo e il documentario: sono entrambe narrazioni, e come tali si basano sull’interpretazione di un autore con i suoi obiettivi, opinioni, e programmi. Ed infatti nel suo documentario non solo mostra come la legge non sia oggettiva ma continua a ricordare che questo è il suo film e, quindi, la sua interpretazione delle decisioni dei giudici, che a loro volta sono interpretazioni della legge: addirittura nella scena d’apertura la voce fuori campo del regista avverte: “Questo è il mio film documentario, e il mio intervento nella costruzione della narrativa è evidente”.
Oltre ai volti The Gatekeeper incorpora altri 2 tipologie di immagini: innanzitutto filmati d’archivio sgranati e in bianco e nero (alcuni inediti), cinegiornali e titoli di stampa (particolarmente interessanti le manifestazioni dei coloni contro Rabin che ricostruiscono il clima sociale e politico che ha poi portato al suo assassinio) che mostrano senza (ab)usare immagini-icone, rimettendo in discussione meccanismi dominanti e sacralizzati; ma anche ambienti digitali puri interamente creati ad hoc al computer. Così ad esempio il dirottamento dell’autobus è stato ricostruito in digitale sulla base di fotografie dell’epoca, ma anche i movimenti dei sospetti terroristi attraverso le telecamere dei droni e le carrellate sugli archivi dello Shin Bet. Il regista però su questo punto non ha voluto specificare: “non vi svelerò quando è reale e quando è ricreato perché dal film non lo si può capire e l’incertezza spinge ad interrogarsi”. Quindi una particolarissima interpretazione di quello che i francesi chiamano “Cadre cachenoir”: l’obiettivo della macchina da presa mostra l’inquadratura e il regista in questo caso non mostra ma addirittura costruisce quello che sta all’esterno del quadro e che non è stato (finora) mostrato.
Insomma, “The gatekeeper” è un document(ari)o di eccezionale interesse sia per i retroscena e i meccanismi che svela, sia per la capacità di destrutturare tutte le immagini iconiche su cui Israele fonda la sua mitologia e con cui si presenta agli occhi del mondo. E l’accoglienza che ha ricevuto ha sbriciolato anche l’ultima grande icona: la discussione del comportamento di Israele è molto più libera e dinamica all’interno che non all’estero dove tende a propagandarsi attraverso una visione monolitica e compatta. Così mentre in Israele si è entrati nel merito del film sia con critiche positive (tra queste quella di Uri Klein, critico cinematografico di Haaretz, che l’ha definito “uno dei documentari più intelligenti, maturi e autonomi che abbia mia visto” e quella di Ariel Rubinstein, un professore dell’Università di Tel Aviv che l’ha descritto come “il documento sogno di chi vuole mostrare quanto sia devastante l’occupazione”) che negative (sempre su Haaretz, Aluf Benn, lamenta “l’utilizzo di immagini iconiche e stereotipate dei palestinesi che lanciano pietre e corrono dietro alle ambulanze”); all’estero non si è parlato del film in quanto oggetto artistico od estetico ma lo si è interpretato in chiave politica in base ad esigenze contingenti: così ad esempio Michael Oren, ambasciatore israeliano a Washington, si è lamentato del fatto che molti spettatori si sono chiesti (e gli hanno chiesto) “perché dobbiamo continuare a sostenere Israele?”, mentre Yaakov Hadas-Handelsman, ambasciatore israeliano in Germania, ha detto che bisogna “sfruttare il film come un’opportunità per sottolineare la forza della democrazia israeliana”.
PS. Un portavoce di Netanyahu ha dichiarato che il primo ministro non ha visto il film, che non ha intenzione di vederlo e che non ha inviato nessun messaggio di complimenti per la nomination all’Oscar; da parte sua il regista ha confessato di non essersi mai aspettato niente di diverso e durante il discorso di ringraziamento e di accettazione dell’Oscar ha dedicato il film a Rabin.