Il disastro ambientale italiano celebrato dai media con la vicenda della Terra dei Fuochi trova la sua espressione emblematica nella storia silenziosa della periferia est di Napoli. Un reportage di immagini e parole suoi vuoti urbani di Ponticelli.
testo di Alessandro Ingaria, fotografie di Gianluca Cecere
6 febbraio 2014 – La lotta al degrado ambientale è un atto di Resistenza. Un moto necessario per difendere il territorio, la vita, le generazioni che verranno. Atti politici di ogni singolo cittadino che si ribella al disinteresse delle istituzioni. Ponticelli, estrema periferia orientale di Napoli, partecipò alla significativa insurrezione contro il nazi-fascismo che condusse alle Quattro Giornate di Napoli. Ora è tempo che il quartiere ritrovi quello spirito ribelle collettivo per combattere contro il destino di una degenerazione irreversibile, fatta di malattie e incuria. Perché al degrado ci si può assuefare, ma di incuria e di malattia si muore. Le responsabilità delle istituzioni locali sono endemiche, ma sono i cittadini a consentire che il territorio, spazio vitale, venga così violentemente oltraggiato.
Attraversiamo il confine tra Poggioreale e Ponticelli; la strada sembra un opprimente tunnel al di sotto della sopraelevata. Ai lati scorrono aziende artigiane e piccoli capannoni, in un’atmosfera al limite dell’umano. Perché in fondo al lungo rettilineo proliferano cumuli informi di rifiuti: copertoni, pezzi di auto, bidoni, scarti di produzioni piccolo-industriali. Gli scenari fantascientifici di catastrofe sono già realtà a Ponticelli: le distrofie urbanistiche degli alloggi dormitorio tra spazi vuoti estranianti e spazi intasati di rifiuti. Un’umanità distratta si muove febbrilmente in questa periferia, i cui i contorni e superfici racchiudono un futuro di alienazione, partorito prematuramente.
Ci imbattiamo in un “versamento” tossico e abusivo, a qualche centinaio di metri da un’area in corso di bonifica. Perché poco distante, sotto altri cavalcavia la società municipalizzata napoletana, l’Asia, sta ripulendo la discarica abusiva di via Petri. Un trattamento provvisorio di sintomi, espressione di uno stato patologico che permea diffusamente il quartiere. Arrivano ruspe e compattatori a ripulire l’area, mentre in zone attigue s’accumula altra immondizia.
Più che un luogo, l’area ci appare come un “non luogo”. Un territorio dell’abbandono e un’aberrazione della dimensione urbana quasi per nulla attraversata dai suoi abitanti, che tornano in questa periferia solo per dormire, lasciando gli spazi al di fuori del controllo sociale. Qui la competenza si gioca tra una delle dodici municipalità e il comune di Napoli. Negli spazi vuoti di pertinenza s’incistano cumuli di rifiuti.
Queste aree abbandonate della periferia post industriale di Napoli est, a poche centinaia di metri dal centro direzionale, rappresentano l’espressione locale, periferica e parossistica di un male diffuso: quello della decomposizione generale della legge sociale. I vuoti amorfi di Ponticelli accolgono discariche che rimangono indisturbate, a differenza di altri siti di sversamento, come quelli di Chiaiano, dove spesso si sollevano proteste. A Ponticelli sono pochi i cittadini impegnati nei comitati di quartiere che difendono la trincea tra salute e malattie, tra diritto e criminalità. Qui i fuochi sono finalizzati a trovare collocazione a nuova immondizia. Con cadenza ciclica, s’appiccano incendi, per generare nuovi vuoti, pronti ad essere colmati di altri rifiuti. L’emergenza esiste da tempo, anche prima che l’opinione pubblica italiana s’indignasse per le vicende delle aree provinciali di Napoli e Caserta.
A Ponticelli non è possibile chiamare in causa il classico stereotipo nazional popolare di cittadini napoletani incivili che gettano i rifiuti dove capita. Si tratta invece di una pratica consolidata, in cui piccoli autocarri smaltiscono rifiuti tossici e pericolosi, prodotto di locali attività artigiane e di piccole fabbriche. Ponticelli, sede fra l’altro di imponenti impianti industriali come il petrolchimico, si caratterizza per una straordinaria densità di fabbriche e attività commerciali cinesi, probabilmente mai censite.
Nel tempo in cui siamo rimasti nel luogo degli sversamenti è passata una pattuglia della polizia municipale, evidenza che la situazione è ben nota all’amministrazione locale e comunale. Le recenti vicende documentano che l’area potrebbe prendere fuoco da un momento all’altro, dopo l’incendio del 24 giugno 2013 che ha eliminato parte dei rifiuti, ora ritornati. La Terra dei Vuoti è sacrificata all’immondizia, negli spazi da cui la coscienza civile si è ritirata.
Ci allontaniamo lentamente da Ponticelli, con un misto di nausea, angoscia ed impotenza. Cosa ci resta di questo racconto di immagini e parole? A cosa può servire questo racconto di periferie, di cui è stata diagnosticata l’agonia irreversibile dai suoi stessi abitanti? La risposta è che non servirà a nulla, se i cittadini non riprenderanno il controllo del territorio dove vivono, in nome della bellezza. L’annientamento della bellezza non è solo causa della devastazione ambientale e dell’aumento dei tassi di mortalità locale, ma è anche origine di un malessere profondo che, qui come altrove, rischia di estinguere ciò che è umano.
Il giorno in cui è iniziato il lavoro per questo reportage era il compleanno di Peppino Impastato. Ricordato per la lotta alla mafia e la morte violenta, era soprattutto un poeta. Aldilà delle facili commemorazioni, di lui restano parole come pietre. Parole dedicate ad un’altra terra maledetta, per quanto amata, che sembrano rivolgersi alla periferia post-industriale napoletana: “Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore “.
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