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Un po’ diario e un po’ reportage, il racconto realistico -pertanto mai serio- dell’esperienza di una filosofa che, nell’horror vacui fra un contratto precario scaduto e il miraggio di quello successivo, dà una mano in una stalla piena di pecore e di pensieri .[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/PA070043.jpg[/author_image] [author_info] Irene. Nel 1984 nasco a Savona, probabilmente per una svista balistica della cicogna: appena riesco rimedio all’errore spostandomi in montagna, con la scusa di un dottorato in antropologia alpina. Prima avevo avuto la faccia tosta di laurearmi in filosofia. A me è Wittgenstein che mi ha rovinata: oggi scrivo, faccio la guida naturalistica e mi arrangio. Mi piace tutto quello che faccio.[/author_info] [/author]

 

11 febbraio 2014 – Corrono tempi cattivi e allora qualcuno, per non farsi raggiungere, si nasconde in campagna. Talvolta si tratta personaggi di formazione umanistica, quelli che al liceo, con metrica zoppicante, hanno balbettato Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi. Fiduciosi nell’autorità degli antichi, ebbri dell’odore del fieno appena tagliato nelle frequenti scampagnate estive e un po’ coglioni, hanno creduto per davvero che i pastori si riposassero “all’ombra di un ampio faggio componendo con zufoli delicati delle poesie silvestri”. Così, quando l’università è finita e il lavoro non è mai iniziato per davvero, si sono ricordati del buon vecchio Virgilio e hanno preso la via della campagna. Se ricchi non sarebbero diventati, almeno poetici e un po’ etici: via dalla calca consumista, più vicini con la schiena e col cuore alla madre terra. Perché se il lavoro nobilita, il lavoro di fatica purifica, rende essenziali e, pare, più sani, forti e in definitiva migliori.

Di sicuro il lavoro in stalla rende storti, anchilosati e pieni di calli alle mani, se più del tridente si è abituati a maneggiare matite e tastiere. Un viaggio al termine della stalla per aspiranti bucolici: tutto quello che Virgilio non ha mai detto e non vi è mai nemmeno venuto in mente di domandare sul mondo della campagna. Se lo conosci, magari lo eviti. Oppure lo affronti con gli stivali giusti.

Un po’ diario e un po’ reportage, il racconto realistico – pertanto mai serio – dell’esperienza di una filosofa che, nell’horror vacui fra un contratto precario scaduto e il miraggio di quello successivo, dà una mano in una stalla piena di pecore e di pensieri. Approfittando biecamente dell’incoscienza di una coraggiosa e ospitale famiglia di pastori, inizia ad aggirarsi per l’azienda agricola nel (talvolta vano) tentativo di rendersi utile. Una narrazione piena di colpi di scena, dove si scopre che le pecore ascoltano RDS (solo grandi successi!) e che la miglior invenzione umana dopo la ruota è il guanto da lavoro. Dove, sospesi nell’atmosfera belante e polverosa della stalla, galleggiano perplessi e indistinguibili pensieri filosofici e infantili considerazioni. Dove l’animale è il motore immobile (mandibola a parte) che tutto intorno a sé fa ruotare, in un gran giramento di balle di fieno: dal campo al fienile, dal fienile alla stalla, dalla stalla alla greppia, dalla greppia alla lettiera. Un racconto scritto per sedimentazione di meraviglia e fatica, che non si sa dove arriva perché si è appena incamminato. Procede risoluto e goffo come un vecchio cane da pagliaio: se a qualcuno sta simpatico, bene. Altrimenti sticazzi (ipse dixit).

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Dallo stallo alla stalla: l’inizio

Tutto comincia con una telefonata: amici di amici che hanno bisogno di una mano in cascina. L’improbabile richiesta di aiuto arriva a scuotere le acque immobili di una palude di attese, delusioni e speranze lavorative lasciate a marcire sui rami come cachi dimenticati a inizio dicembre. In questo frangente, interpreto ovviamente l’assurda chiamata come un segno del destino (il giorno che il destino imparerà a esprimersi con i post-it si eviteranno un mare di cazzate) e fiondo a conoscere i pastori. “Ciao io sono M.” “Piacere, I.” “Sei mai stata in un’azienda agricola?” “Veramente no…” “Bene. Questa è la stalla. Queste le pecore. Se non hai da fare, si comincia domani”.

Qui comincia l’avventura di pensiero e agricoltura.

 

 



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