I quattro alfabeti del Buon Samaritano

Tra Israele e Palestina, una comunità anacronisticamente moderna.

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/RITRATTO1.jpg[/author_image] [author_info]di Nicola Duberti (Mondovì 1969) si spaccia per romanziere (Piccoli cuori in provincia granda, 2011) e attore (Le voci del Tanaro, 2012) ma in realtà è presentabile solo come poeta in dialetto alpino (J’òmbre ’nt le gòmbe/Le ombre nelle valli, 2013).  Alle varie lingue del Piemonte, e non solo, dedica da anni un vivace interesse prima di dilettante, poi di semi-professionista consacrato dalla frequenza di un dottorato in Scienze del Linguaggio presso l’Università di Torino. I suoi ambiti di ricerca sono molti, in particolare la sintassi dialettale: ma sa che di queste cose non si parla in pubblico…Per sopravvivere, conta sui lauti proventi della propria attività di insegnante di lettere part-time in una scuola media.[/author_info] [/author]

 

12 febbraio 2014  – I Samaritani sono parte del nostro immaginario. Il Buon Samaritano della parabola evangelica, che soccorre l’uomo malmenato dai ladri sulla strada da Gerusalemme e Gerico, è diventato l’Uomo Solidale per antonomasia. La Samaritana che discute con Gesù mentre lui sale verso Gerusalemme è una delle più interessanti figure di donne del Nuovo Testamento. Ma pochi pensano ai Samaritani come ad un popolo. Eppure sono stati un’entità etnica, nazionale e religiosa di discreto rilievo. Secondo alcuni, arrivarono ad essere un milione in epoca romana e bizantina. Poi, più per l’ostilità dei Cristiani che per quella proverbiale degli Ebrei di Giudea, andarono incontro ad un graduale declino demografico. La dominazione musulmana non migliorò la loro condizione. Alla fine della Prima Guerra Mondiale, con il crollo dell’Impero Ottomano, se ne contavano ancora poco più di cento.

 

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Da allora il destino avverso sembra aver invertito direzione: lentamente sono cresciuti e oggi dovrebbero essere tra i sette e gli ottocento individui. Alcuni di loro sono stanziati nei Territori Palestinesi, a Kiryat Luza (presso Nablus), mentre altri vivono a Holon, un sobborgo di Tel Aviv. Ma fra le due metà della comunità samaritana non c’è frattura: quelli che vivono a Kiryat Luza sono anche cittadini israeliani e usano (anche) l’ebraico pur frequentando le scuole palestinesi, mentre i samaritani stanziati a Holon non abbandonano l’uso della loro propria varietà di arabo. Del resto non potrebbero rinunciare in alcun modo al loro legame con il territorio arabo palestinese: è lì che si trova il loro monte sacro, Har Gherizim, sulla cui cima Abramo avrebbe tentato di sacrificare Isacco e il re Salomone avrebbe costruito un primo Tempio ebraico (e in effetti gli scavi recenti sembrano suggerire che non si tratti solo di leggende). Per questo ogni anno sullo Har Gherizim i Samaritani rinnovano il Pesach, cioè la Pasqua ebraica, con il sacrificio prescritto dal libro dell’Esodo (Shemot).

 

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I Samaritani si considerano infatti gli Ebrei autentici ed originali, quelli rimasti fedeli all’antico rituale mentre gli altri andavano in esilio alterando le proprie tradizioni. Il loro nome ebraico, Shomronim, è legato a una radice che significa “osservare, conservare”. Sarebbero insomma “i conservatori”. Sostengono di discendere dalla tribù di Giuseppe e, in parte, da quella di Levi. Hanno mantenuto una struttura teocratica, guidata da sacerdoti (Cohanim) a capo dei quali sta un Cohen Gadol (Gran Sacerdote), che come nell’antichità biblica controlla gli affari religiosi e celebra i sacrifici.

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L’ebraismo a noi più familiare è da loro considerato un’eresia, iniziata con il sacerdote Eli nell’ambito della religione originaria di cui loro soli sarebbero i rappresentanti; di conseguenza, essi rifiutano la Scrittura ebraica successiva alla Torah e al libro di Giosuè, e a maggior ragione tutte le elaborazioni posteriori poi confluite nel Talmud. Per loro insomma esiste solo il Pentateuco con le sue immediate appendici: la Torah, insomma, che scrivono con l’antico alfabeto ebraico in uso fino al 586 a.C. (molto simile a quello fenicio originario), non con l’alfabeto ebraico quadrato (che era poi l’alfabeto aramaico, anche se oggi viene identificato da tutti come ebraico tout court). Naturalmente per gli scopi civili usano sia l’ˁivrit, cioè l’ebraico moderno, sia l’arabo. I loro villaggi sono una festa alfabetica: le insegne dei negozi sono scritte in alfabeto ebraico antico, in alfabeto arabo, in alfabeto ebraico quadrato e finalmente in alfabeto latino, ma solo per la traduzione inglese.

 

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Una comunità molto interessante, quindi. Con qualche problema. In primis, di ordine genetico. La loro rigida endogamia ha portato alla situazione paradossale del primo Novecento, con quattro famiglie (una delle quali sono i Cohen discendenti da Aronne) inestricabilmente imparentate. Come tutte le comunità troppo piccole per praticare l’endogamia con speranze di salvezza, hanno dovuto fare i conti con tantissimi problemi di salute: bambini sordociechi, deformi, o perlomeno affetti da patologie muscolari. Le strutture mediche e universitarie di Israele si sono molto preoccupate e anche i sacerdoti samaritani hanno preso sul serio la questione, autorizzando i maschi della comunità a sposare donne straniere, cioè ebree o eventualmente cristiane. La condizione della donna, nella comunità, non deve essere facilissima: i Samaritani per esempio, fedeli a un’interpretazione letterale delle prescrizioni bibliche, isolano le donne durante il ciclo mestruale per non essere contaminati da un eventuale contatto. Nonostante tutto, però, la prospettiva di diventare Samaritana ha attirato alcune donne soprattutto russe e ucraine, cristiane ortodosse che si sono formalmente convertite per sposare qualche (più o meno) giovane membro della comunità.

 

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Le foto reperibili in rete (digitando Samaritan Jews) presentano una comunità viva, un po’ autoironica nella sua estenuata conservazione di tradizioni arcaiche a cui comunque anche molti Ebrei talmudici guardano con interesse: le celebrazioni annuali di Pesach richiamano molti turisti e, tra essi, si contano anche parecchi Ebrei ortodossi interessati ai rituali di sacrificio che dovrebbero essere teoricamente recuperati una volta ricostruito il tempio a Gerusalemme.

Tempio che comunque ai Samaritani non interessa, perché – come emergeva già chiaramente nella discussione fra la donna samaritana e Gesù al pozzo di Sichar, che altro non è se non il nome di Sichem (Nablus) scritto in aramaico – il luogo di culto vero è “Il Monte”, Har Gherizim, non l’altro monte, quello di Sion. Gesù, da bravo Giudeo, ovviamente dà torto alla donna. Ma ai Samaritani i torti della storia evidentemente non fanno né caldo né freddo. Continuano, imperterriti, a restar fedeli a una tradizione fra le più antiche del mondo. I loro bambini, con lunghe orecchie a sventola e vistosi nasi da semiti stereotipici, si fanno fotografare in abiti candidi mentre, con la kippah o il fez rosso in testa, scandiscono ritmicamente la Torah su rotoli o volumi in alfabeto paleo-ebraico. Nell’angolo della foto qualcuno di loro, incurante anche della propria posa, gioca con il cellulare. Forse scrivendo in inglese ai suoi cugini in  Russia.

 

 



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