Moriva dieci anni fa l’uomo che ha riportato il ciclismo nel cuore della gente, strappando urla e lacrime come nessuno mai.
di Alessandro Ingaria
14 febbraio 2014 – Il quattordici febbraio 2004 moriva Marco Pantani. Una notizia arrivata in serata, amara come la polvere di caffè. Così terminava la parabola di uno dei più grandi scalatori del ciclismo mondiale.
A cavallo della bicicletta Pantani era un genio. E come tale, colmo di sregolatezza. Caratteristica che lo rese un personaggio poco gradito, in un ambiente pervaso di atteggiamenti reazionari.
La leggenda narra che durante una tappa clou di una delle sue ultime partecipazioni al giro d’Italia, il suo direttore sportivo gli negò la possibilità di utilizzare le ruote leggere. Un comportamento da padre autoritario nei confronti di un bambino bizzoso, a scopo punitivo. E sempre la leggenda narra che Mario Cipollini, il Re Leone, gli prestò le sue. Pantani era troppo per il mondo del ciclismo. Per certi versi era paragonabile a Diego Armando Maradona; incontenibile in campo e difficile da gestire fuori.
Le valli ruggivano quando passava il Pirata. Nell’ultimo giro d’Italia a cui partecipò, nonostante fosse attardato in classifica generale e nella fase finale della carriera, le urla dei tifosi furono tali che la maglia rosa Gilberto Simoni transitò per prima, ma quasi inosservata. La gente ha pianto quando Pantani è morto. Il ciclismo deve molto a questo ragazzo, troppo fragile per sopportare l’enorme pressione a cui era sottoposto e troppo grande per il “piccolo” ciclismo italiano, incapace di gestire il diamante grezzo avuto in dono. Un atleta in grado di risollevare un intero settore, quello della vendita di biciclette, come nessuno mai in precedenza. Un ragazzo lasciato in balia di squali e apprendisti manager, capaci più che altro di fare comparsate in TV sostenendo che mangiare troppe bistecche, o ricevere in regalo le caramelle colombiane della zia, potesse causare positività ai controlli antidoping.
Chi l’ha conosciuto lo ricorda come un ragazzo tendente alla depressione, in un mondo cinico come pochi; un sistema dove una positività al doping è sempre a carico del ciclista, nonostante le leggi che tutelano il lavoratore, per sua natura elemento debole della catena. Un mondo dove non esistono gli eroi, ma solo persone che inseguono un sogno coltivato sin da bambino. E quello di Marco era legato a due ruote, alla salita e alla fatica, alle gare e al calore dei tifosi.
Vedere gli scatti di Pantani era come assistere ad un goal di Maradona; ci si ritrovava inginocchiati davanti alla TV urlando “Vai Pirata”. Pantani non c’è più, ma rimane l’immagine di quel ragazzo che non è mai diventato uomo, consumato da un mondo che l’ha reso milionario, per poi gettarlo via come un preservativo usato.