Dragonomics – La bella tartaruga

I giovani cinesi che studiano all’estero sono l’avanguardia intellettuale e professionale del Paese: cervelli in fuga ma non troppo, perché di solito tornano a casa. Con loro è nata la generazione dei tecnocrati e il neoliberismo si è diffuso in Cina. Oggi, per le “tartarughe di mare”, è però sempre più difficile trovare lavoro.

 

di Gabriele Battaglia

tratto da ChinaFiles

 

19 febbraio 2014 – Da almeno un trentennio sono l’eccellenza della Cina. Si chiamano hai gui, cioè quelli che tornano dopo avere studiato oltremare; ma grazie alle omofonie di cui la lingua è ricca, hai gui può anche significare “tartaruga di mare”.

Il fenomeno cominciò nel 1979, quando Deng Xiaoping decise di mandare i primi enfant prodige della grande Cina a farsi le ossa all’estero (ai loro fratelli maggiori era andata peggio, erano stati spediti in campagna). C’era da creare forza lavoro e intelligenza per la stagione delle riforme e aperture, bisognava non solo attirare gli investimenti stranieri, ma acquisire anche le conoscenze. E così, in un flusso inarrestabile, almeno un milione e mezzo di cinesi ha studiato oltremare negli ultimi tre decenni, di cui circa il 37 per cento negli Stati Uniti. Basti pensare agli studi del presidente Xi Jinping negli Usa: anche lui, modo suo, una tartaruga.

 

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Gli hai gui hanno poi cominciato a tornare sulla spiaggia natia, occupando le migliori posizioni, specie nella ricerca. Secondo fonti ufficiali, nei primi anni Duemila, l’81 per cento dei membri dell’Accademia delle Scienze, il 54 per cento di quelli dell’Accademia di Ingegneria e il 72 per cento dei team leader nella ricerca tecnologica, erano returnees. Dalla ricerca al business e poi alla politica il passo è breve, ed ecco la leadership dei “tecnocrati”.

Anche l’ideologia neoliberista è arrivata da Chicago a dorso di tartaruga. Nel 2005, dei 24 docenti del China Center for Economic Research (Ccer) dell’Università di Pechino, ben 21 avevano acquisito un dottorato negli Usa, con un netto predominio dei “Chicago boys”. Tra questi, c’era anche Lin Yifu, fondatore e direttore del Ccer fino al 2008, passato poi alla World Bank come vicedirettore e chief economist. Non è un caso che il Ccer fosse ampiamente finanziato dalla stessa Banca Mondiale e dalla Ford Foundation.

Con la massificazione delle tartarughe e il contemporaneo rallentamento dell’economia cinese, il quadro si è stravolto. Oggi, andare all’estero a studiare è l’investimento sul futuro di un ceto medio in espansione numerica, che punta tutte le sue carte sul xiao huangdi – il piccolo imperatore – il figlio unico prodotto dal controllo sulle nascite.

L’anno scorso hanno studiato all’estero in circa 450mila, pagando rette del 12 per cento superiori rispetto al 2012; nel 2014, saranno circa in 300mila a ripresentarsi alla porta di casa, vogliosi di trovare un lavoro consono alle loro prestigiose lauree.

Ma – ecco la novità – le garanzie di trovarlo si assottigliano, data l’agguerritissima concorrenza di ben 7,3 milioni di coetanei “sedentari”, che si affacceranno quest’anno sul mondo del lavoro e che magari hanno studiato nelle filiali che le maggiori università straniere aprono in Cina (come per esempio la Stanford e la Columbia). In un contesto che vede il calo dei posti di lavoro disponibili: 15 per cento in meno nel 2013 rispetto al 2012, secondo il viceministro dell’Istruzione, Du Yubo.

Inevitabilmente, i salari sono più bassi delle aspettative. Il “Centro per la Cina e globalizzazione”, un think tank pechinese, sostiene che circa l’86 per cento dei laureati all’estero trova lavoro entro sei mesi dal termine degli studi. Ma il 59 per cento ha scoperto di avere un guanxi (“network”, ingrediente fondamentale in Cina più che in Italia) più fragile di chi è rimasto a coltivarselo e tre su quattro sostengono di essere pagati solo un terzo di quanto si sarebbero aspettati.

Così la Cina si trova a metà del guado. Il passaggio alla civiltà dei consumi voluto dalla leadership di Pechino si scontra con redditi non ancora all’altezza e i soldi restano in saccoccia: a oggi, solo il 35 per cento del Pil cinese è determinato dal consumer spending (in Europa si viaggia tra il 50 e il 60, negli Usa siamo a poco meno del 70), mentre evapora in parallelo il ruolo di “fabbrica del mondo”. A Shenzhen, il salario minimo è stato aumentato per legge del 13 per cento dal mese scorso, e qualcuno pensa che investire oltre Muraglia non convenga più troppo. Indovinate chi ha appena suggerito ai produttori cinesi di spostare le proprie fabbriche ad alta intensità di manodopera in Africa? Lin Yifu, proprio lui, l’ex tartaruga neoliberista che ora è vice presidente della All-China Federation of Industry & Commerce.

 

 

 



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