12 Anni schiavo, di Steve McQueen
Con Chiwetel Ejiofor, Michael Fassbender, Benedict Cumberbatch, Paul Dano, Garret Dillahunt, Paul Giamatti, Lupita Nyong’o, Adepero Oduye, Brad Pitt
Premio del pubblico al Festival di Toronto 2013. Premio Miglior film dell’anno ai Bafta 2014. Candidato a 9 premi Oscar.
In uscita il 20 febbraio
di Irene Merli
Dio abbia in gloria Tarantino. All’uscita del suo beffardo “Django Unchained”, dichiarò che in America si potevano contare sulle dita di una mano i film che parlano di schiavitù. Non di razzismo, si badi bene, ma di schiavitù, il motore dell’economia degli Stati del sud fino alla Guerra di Secessione.
E forse ci voleva un inglese, artista e regista cult di colore, per riuscire a raccontare la pagina più vergognosa della storia americana con spietata crudezza, senza un’ombra di reticenza o edulcorato romanticismo alla “Via col vento”. Non solo. Ci voleva anche un attore americano, Brad Pitt, che 12 anni schiavo l’ha voluto produrre personalmente. Senza il suo intervento, per ammissione del regista, il progetto non sarebbe mai decollato.
E che film ha fatto McQueen. Un film elegante anche nelle scene più violente, ma durissimo e necessario, che finalmente mostra come vissero quelle “bestie” rapite e vendute, ammazzate di fatica, a suon di frustate o con la corda al collo dal 1776 al 1865. Nel 1860 gli schiavi negli States erano circa 4 milioni, mica bruscolini. E chi li comprava acquistava anche la loro discendenza.
12 anni schiavo ha dalla sua la forza della storia vera. E il punto di vista della testimonianza dal di dentro. Perché Solomon Northup, il protagonista del film, è realmente esistito e nel 1853 ha scritto un’autobiografia che rivelò al pubblico americano la vita quotidiana degli schiavi, destando una grandissima emozione.
Northup era infatti un nero nato libero, che viveva a Saratoga con moglie e figli, aveva una casa propria, un mestiere di carpentiere e la passione del violino. Tutto come i bianchi e tra i bianchi, a parte l’impossibilità di votare. La caduta nel tunnel che lo strappa a ogni diritto umano arriva all’improvviso, con una trappola.
Nel 1841, anno d’inizio del suo incubo, l’importazione degli schiavi dall’Africa era ormai proibita, ma in Georgia e in Louisiana avevano sempre più bisogno di braccia gratuite per gli immensi campi di cotone e di canna e da zucchero. Così erano cominciati i rapimenti dal Nord al Sud della Confederazione. Nello specifico, due artisti da circo offrono a Solomon un lavoro ben pagato, lo fanno ubriacare e il giorno dopo Northup si trova in una cella di Washington con mani e piedi incatenati, poi su una nave di dannati fino a New Orleans, dove di colpo e per sempre è diventato Platt, uno schiavo fuggito dalla Georgia, e in quanto Platt viene venduto da un mercante che in una bella casa offre i suoi acquisti umani ai migliori offerenti.
Separando madri dai figli, mostrando ai clienti come un bambino diventerà “una bella bestia” e una bambina una miniera di soldi perché è chiara di pelle e non ha i “labbroni” da selvaggia. Tutto è lecito pur di guadagnare, in una scena di disprezzo verso la “merce” ormai inimmaginabile. Si fa fatica anche solo a capire: non abbiamo più le categorie, per fortuna.
Ma ancora non è nulla. Il film, quando si addentra nel racconto della vita di Solomon in due grandi piantagioni, ha scene di violenza fisica e psicologica difficili da sopportare. Solomon si misura ogni giorno con la ferocia dei padroni delle piantagioni (un personaggio dice che per loro il giudizio post mortem sarà peggio della maledizione dei faraoni), impara a fingere di non saper scrivere o leggere, a obbedire e a subire ogni genere di sopruso pur di sopravvivere e tornare libero. La speranza, come in ogni storia classica non lo abbandona mai e lo distingue dagli altri, che accettano il loro destino come immutabile. Né lo abbandona la forza di sopportazione.
Persino quando lo vedremo pendere da un albero sotto un sole calcinante con una grossa corda al collo, per un tempo che a chi guarda sembra infinito, tra il silenzio degli altri schiavi e gli schiamazzi dei bambini che giocano. Persino allora Solomon non cederà e continuerà a sfiorare il terreno fangoso con la punta delle scarpe sfondate, unico appiglio perché il cappio non lo strangoli. “Strange fruit”, cantava Billy Holliday nel 1939.
Solomon sarà poi casualmente aiutato da un carpentiere canadese, convinto abolizionista. E tornato a New York, unico sopravvissuto tra i tanti neri rapiti della sua epoca, volle scrivere 12 anni schiavo (ora ripubblicato da Newton Compton), si impegnò in prima persona contro lo schiavismo e fece conferenze in lungo e in largo in tutti gli States. Nei titoli di coda si legge che non si conoscono data, luogo e circostanze della sua morte, anche se è facile intuirle, purtroppo.
Ora la regia di Steve McQueen e l’ interpretazione di tutti gli attori, dal primo all’ultimo, riporteranno in vita la sua denuncia.
E il 2 marzo, quando saranno assegnati gli Oscar, noi di Qcode ci auguriamo che sia questo grande film a vincere la statuetta più ambita. E Matthew McConaughey quella di miglior attore, per la sua straordinaria interpretazione di Dallas Buyers Club.
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