Il governo bolivariano di Nicolas Maduro vive un momento molto difficile: opposizioni che spingono sulla crisi economica, finanziaria e monetaria, pressing mediatico e Stati Uniti che dimostrano di voler tornare a intervenire nella politica interna del governo. E, secondo alcuni analisti, anche settori del chavismo che mal sopportano il nuovo corso
di Angelo Miotto
Il presidente statunitense Obama si è diretto per la prima volta in maniera diretta durante un discorso al governo di Nicolas Maduro: «Liberi i detenuti e apra con le opposizioni un dialogo sincero», ha detto il capo della Casa Bianca. L’intervento di Obama è importante, dopo la crisi sancita dall’espulsione di tre vice consoli da Caracas con l’accusa di fomentare organizzazioni giovanili antigovernative.
Il ministro degli esteri venezuelano, Emil Jaua, ha sostenuto di avere le prove dei contatti che venivano stretti nel corso di diverse visite dei tre nelle università del paese caraibico: sarebbero dentro un carteggio di email, che però Jaua non ha voluto rendere pubbliche – sostiene per non svelare altre piste di indagine – in cui i tre avrebbero chiesto a Washington di stanziare più soldi in appoggio a queste organizzazioni.
I fondi ufficialmente stanziati dagi Usa per contrastare il governo bolivariano ammontano a 5 milioni di dollari e stiamo parlando delle cifre in chiaro e non dei fondi riservati a disposizione dei servizi di intelligence. La crisi diplomatica è tornata a surriscaldarsi, come non avveniva da tempo, dopo le dichiarazioni di uno dei tre espulsi, il signor Lee, che a poche ore da scontri, i tre morti del 12 febbraio e l’assalto alla procura generale da parte di un gruppo antichavista aveva detto alle autorità venezuelane che dovevano rilasciare gli arrestati, intavolare un dialogo con loro. Richieste perentorie che hanno avuto come risposta l’ordine di abbandonare il Paese in 48 ore.
I rapporti i forza fra Usa e Venezuela hanno vissuto negli ultimi anni solo scontri e scambi di accuse, tranne che al momento dell’elezione di Obama, quando il presidente Hugo Chavez si disse possibilista sul fatto che le cose avrebbero potuto migliorare. Al momento della morte del carismatico presidente, però, gli Usa sono tornati a giocare a favore delle opposizioni, sconfitte di misura nel 2013 alle elezioni presidenziali. Eppure gli Usa, per bocca degli alti vertici, non hanno mai voluto riconoscere apertamente la vittoria di Nicolas Maduro, anzi John Kerry, segretario di Stato, ha riservato parole dure verso il governo dell’ex ministro di Chavez. L’8 dicembre, con la sconfitta delle opposizioni alle elezioni municipali – che dovevano essere la buona occasione per far vacillare i socialisti bolivariani – è stata una data importante per il governo regolarmente eletto. E per le opposizioni che hanno visto un’alternanza fra i capi rivolta, da Henrique Capriles a Leopoldo Lopez, quest’ultimo al centro delle cronache degli ultimi giorni.
*Publico.es: Quien son los jovenes venezuelanos?
*Rebelion.org: Venezuela y los procesos desestabilizadores en América Latina
Lopez, infatti era stato accusato dal governo di essere una sorta di mandante morale e politico dei disordini avvenuti nella capitale e in molte altre città, dove sono morti due studenti – Maduro ha dovuto sostituire poche ore dopo il capo dei servizi segreti bolivariani, il Sebin – e di un giovane dei colectivos chavisti, tutti morti per colpi di arma da fuoco.
Lopez, dopo una latitanza di alcuni giorni e video pubblicati su youtube per convocare una manifestazione nel giorno in aveva deciso di costituirsi, è apparso il 17 in piazza vestito di bianco e si è fatto arrestare di fronte a qualche decina di fotografi che hanno popolato le prime pagine di tutto il mondo della foto del leader arrestato. Per la cronaca, vale ricordare che Lopez e Capriles, che fondarono anni fa la prima opposizione di Justicia Primero, sono immortalati nei video dei protagonisti del golpe delll’11 aprile del 2002, 72 ore di governo del fantoccio confidtustriale Pedro Carmona, in asilo politico da allora a Bogotà, quando in molti si affrettarono a riconoscere un governo, frutto di un colpo di stato come legittimo, la Spagna di José Maria Aznar in prima fila. Fatti di cui ricordarsi quando ci si riempie la bocca di ‘democrazia’.
Che ci sia grande malcontento nel paese caraibico non è un mistero: i generi di prima necessità scarseggiano, Maduro non è sicuramente Chavez con tutti i pregi e difetti dell’ex presidente, icona della rivoluzione bolivariana e grande stratega nel costruire alleanze regionali (ricordiamo la battaglia vinta con Brasile, Bolivia e Argentina contro l’ALCA). Già dai tempi della malattia e delle convalescenze cubane la grande domanda riguardava l’eredità chavista e l’economia reale si vede afflitta da un’inflazione annuale al 54,3%, con una politica di svalutazione del bolivar che ha toccato il 44% e un sistema di asta per comprare divise straniere, cioè dollari, controllata dal governo, ma necessaria per evitare che i produttori e distributori di generi di prima necessità continuino ad aspettare a vendere i loro prodotti per aspettare il momento più conveniente. Maduro li ha chiamati accaparratori e nel gennaio di quest’anno il governo ha licenziato una legge dura, con pene elevate di carcere, per chi viene colto con i magazzini pieni, mentre gli scaffali dei supermercati restano vuoti.
Eppure i grandi piani che avrebbero dovuto slegare le sorti del paese dalla rendita petrolifera non sono mai state attuate. Chavez, questa fu la sua rivoluzione, legò la rendita del petrolio non al profitto delle multinazionali, ma alla redistribuzione verso la società, ma i progetti per nuovi poli industriali, la lotta alla criminalità per favorire il turismo o una seria riforma agraria sono ancora obbiettivi lontani. E il petrolio rischia di non dare le soddisfazioni degli anni passati, se sono veri i dati del Dipartimento di Stato che indicano una contrazione dell’export e un aumento di import dagli Usa per prodotti raffinati.
Una situazione in cui diventa difficile, molto spesso, individuare tutte le dinamiche in campo, ma l’osservazione in questi giorni della stampa mainstrem internazionale dice che le opposizioni hanno avuto una copertura mediatica particolarmente felice, che la consegna di Lopez, mediatizzata, è stata un successo, che anche sui social network – soprattutto su twitter – gli hastag contro Maduro hanno funzionato bene e hanno scalato i trending topics.
Il 20 febbraio il numero delle vittime è salito a cinque, oltre ai tre di Caracas, un uomo ucciso in circostanze strane da un commando a bordo di moto di grande cilindrata, e una ragazza, famosa per aver vinto un premio di bellezza, è morta a Tachira, dove gli scontri sono stati particolarmente violenti e dove il governo ha deciso di militarizzare le strade.
Le accuse dei settori dell’oficialismo riguardano gli Usa, ma anche lo storico alleato di Washington, la Colombia. Ci ha pensato il presidente Santos a buttare benzina sul fuoco con una dichiarazione sibillina dove ha sostenuto che la Colombia è pronta a intervenire per il bene del Venezuela, mentre sono stati rispolverati i collegamenti fra i leader dell’opposizione e l’ex presidente Alvaro Uribe Velez, amico degli squadroni della morte e finito nelle indagini sui rapporti con i cartelli della droga.
Una crisi che è diventata in pochi giorni regionale: ma non è certo un caso se il Mercosur abbia scritto una dichiarazione ufficiale preoccupata per la tenuta delle istituzioni di fronte all’attacco contro la democrazia venezuelana. Argentina e Brasile si sono schierate con la Bolivia al fianco di Maduro, mentre l’Organizzazione degli Stati americani non ha trovato unanimità su un documento comune.
Tutto lascia presagire che una situazione ingarbugliata, dove la propaganda delle due parti in causa spesso lancia notizie difficili da verificare o addirittura costruite (l’opposizione ha lasciato dei twitter con foto di repressione egiziana o siriana spacciandola come intervento dei soldati di Maduro) potrà solo complicarsi in una stagione di grande incertezza per la tenuta politica, ma anche economica e sociale del paese.