Jerusalem, a cook book

“Jerusalem, a cook book” non è solo un libro di ricette, ma anche il tentativo di raccontare una città dove tutto (ricette comprese) viene conteso.

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/01/sandra_haifa.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandra Abbona. Classe 1968, press officer, giornalista free lance, è laureata in scienze politiche e poi in antropologia sociale, con particolare interesse per migrazioni, Mediterraneo e Medio Oriente. Ha sviluppato conoscenze sugli intrecci religiosi, sulle culture e subculture nei paesi del Mediterraneo. La musica è la sua passione. Da anni cura la rubrica musicale per Popoli, mensile dei Gesuiti. E’ inoltre una mamma ansiosa ed è allergica a chi non ha mai dubbi. Il suo blog è http://notonlylanga.blogspot.it/ [/author_info] [/author]

 

26 febbraio 2014 – Questo non è un semplice libro di ricette. Può fare sensazione sapere che a scriverlo siano stati un israeliano e un palestinese; può fare sensazione sapere che sono gay; può fare altrettanta sensazione sapere che sono grandi amici e partner – di successo – in affari; può fare sensazione sapere che i due si sono conosciuti a Londra, dove entrambi erano alla prime armi nel mondo della ristorazione, e che inizialmente si parlassero in ebraico perché Yotam non si era accorto che Sami era palestinese.

 

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Questo lo hanno già detto e scritto molti altri giornali. Quello che è stato meno sottolineato è che i due gerosolimitani Yotam Ottolenghi – ebreo di padre italiano e madre tedesca, famiglia borghese, studi in prestigiose università e Ph.d, finito per passione nel mondo della gastronomia – e Sami Tamimi – palestinese, famiglia proletaria, numerosa e laica – hanno realizzato un libro che è una dichiarazione d’amore alla loro città, e lo hanno fatto con accuratezza, acume e diplomazia.

Ovviamente parlare di Gerusalemme, anche se dal punto di vista culinario, non è mai semplice. O meglio, si rischia di non essere mai neutrali. Invece Ottolenghi e Tamimi ci sono riusciti benissimo: con leggerezza e cuore. Già dall’introduzione, parlando della commistione tra culture intorno ad un piatto di cuscus con pomodori e cipolle, cucinato sia dalla mamma di Sami, la palestinese Na’ama, che dal papà di Yotam, l’ebreo italiano Michael. Un piatto che si ritrova anche nella tradizione degli ebrei libici. E questo è solo l’inizio di vari e complessi intrecci.

Scrivono gli autori: “Questa è Gerusalemme: vicende personali e privatissime si intrecciano in grandi tradizioni gastronomicheche spesso si sovrappongono e interagiscono in modi imprevedibili, dando luogo a mescolanze di cibi e combinazioni culinarie che, pur appartenendo a comunità specifiche sono patrimonio di tutti”.

E ancora: “ Esiste qualcosa che si possa chiamare cibo di Gerusalemme? (…) In questa città ci sono monaci ortodossi greci, preti ortodossi russi, ebrei hassidici polacchi, ebrei non ortodossi provenienti dalla Tunisia, dalla Libia, dalla Francia e dall’Inghilterra; ebrei sefarditi che vivono qui da generazioni; musulmani palestinesi della Cisgiordania (…), ebrei askenaziti provenienti dalla Romania, dalla Germania, dalla Lituania e ebrei sefarditi venuti più di recente dal Marocco, dall’Iran, dall’Iraq e dalla Turchia; arabi cristiani e armeni ortodossi; ebrei yemeniti, ebrei etiopi (ma anche etiopi copti); ebrei di provenienza argentina, ma anche oriundi dall’India meridionale; monache russe e una quantità di ebrei di Bukhara (Uzbekistan)”. Un enorme intreccio di cucine, di culture e subculture, proseguono i due cuochi.

Ma anche sono coscienti delle tensioni che questo crogiuolo porta in sé.

Ovunque andiate vi accorgerete che tutti si danno ostinatamente da fare per tutelare  ciò che considerano terra di loro appartenenza. Il più delle volte questo risulta alquanto sgradevole. L’intolleranza e la mancanza di rispetto per i diritti fondamentali degli altri sono all’ordine del giorno. Attualmente la minoranza palestinese è quella che più risente di questa situazione e non mostra segni di voler riprendere il controllo del proprio destino. Dal canto loro gli ebrei laici vedono il loro sistema di vita gradualmente marginalizzato da una crescita della popolazione ortodossa”.

 

Yotam Ottolenghi, left, and Sami Tamimi at their test kitchen in London.

 

E infine: “E’ triste constatare quanto sia scarsa l’interazione quotidiana tra le diverse comunità e come l’aggregazione tra le persone avvenga solo nell’ambito di gruppi chiusi, omogenei. Sembra comunque che il cibo, occasionalmente, sia in grado di infrangere queste divisioni. Ci vuole un atto di fede enorme, ma ci piace immaginare – che cosa rischiamo ? – che se non ci riuscirà qualcos’altro, alla fine sarà l’hummus a creare unità tra i gerosolimitani”.

Un paragrafo è inoltre dedicato alla proprietà e appartenenza delle varie ricette, in un luogo dove “la gente lotta duramente e con passione per tenersi aggrappata alle cose: terra, cultura, simboli religiosi, cibo”.

Difficile quindi assegnare primogeniture di un piatto ad un gruppo piuttosto che ad un altro. Ad esempio il famoso hummus, piatto tipico della cucina palestinese e da essa rivendicato, ma anche elemento caratteristico della cucina degli ebrei di Aleppo, vissuti in Siria per millenni. E così via. Con grande garbo, Ottolenghi e Tamimi sfiorano questi temi, ricordando come tutto venga conteso.

 

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Veniamo dunque alle ricette: splendidamente raccontate e fotografate. Ognuna di esse apre uno scrigno su una storia antica: le polpette di carne con porri e limone (da chi scrive testata più volte, ormai un must sulla mia tavola) tipica degli ebrei di Smirne, il cavolfiore fritto con tahini di origine araba, la robusta shakshuka (uova, pomodoro, peperoni e spezie) degli ebrei libici, la zuppa di pistacchi degli ebrei iraniani, l’orata fritta con harissa e rose degli ebrei tunisini, il khachapuri georgiano (focaccia ripiena di formaggio fresco), i ma’amoul, raffinati dolci arabi ripieni e così via…

Il libro è un invito a sperimentare questi piatti straordinari, ma anche un invito ad andarli a cercare a Gerusalemme. Luogo che Tamimi e Ottolenghi considerano casa loro, anche se per essere quelli che sono, hanno dovuto lasciare questa città ed costruirsi una vita nella lontana Londra.

 

 



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