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Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile. [/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
26 febbraio 2014 – La crudezza di City of God mette alla prova. Quella sua fattezza così reale e realistica. Quella sua autenticità. Quelle sue verità che non lasciano scampo. Mai.
La crudezza di City of God mette alla prova, perché è il Brasile stesso a mettere alla prova. Perché la realtà del Brasile è lampante e tragica. E City of God ne è la metafora perfetta, la prova vivente, quel ritratto indiscusso che prima o poi il cinema riesce a dare delle cose. E non si tratta solo del contenuto della pellicola di per sé, ma della pellicola stessa, del suo viaggio per diventare tale.
City of God non è un film. City of God è un’alternativa.
In cerca di un’autenticità che fosse schiacciante e indiscutibile, nel 2002 Fernando Meirelles con la co-regista Kàtia Lund decidono di abbandonare l’idea di un cast professionale e rivolgersi alle persone che le favelas le vivevano veramente, ogni giorno. A gente che nelle favelas c’era nata e c’era cresciuta e, per fortuna, non ci era ancora morta. Quelle persone sarebbero state le uniche veramente degne di interpretare ruoli così crudeli, così disperati, così corrotti, così agguerriti o così pieni di speranza.
Così decidono di mettere su un corso di recitazione, una specie di maxilaboratorio gratuito aperto a tutti, nel cuore delle favelas. Un maxilaboratorio che accoglierà centinaia di ragazzi e bambini, offrendo loro un’alternativa alla droga, alla violenza e alla criminalità. Offrendo loro la possibilità di raccontarle, quelle loro favelas. La parola d’ordine è improvvisazione, perché nessuno sa raccontare meglio una vita di chi quella vita l’ha vissuta sulla propria pelle e nel proprio cuore.
Quello che ne esce è una pellicola dalla potenza inequiparabile, corposa, intensa, fitta. Un vero capolavoro. Non solo da un punto di vista cinematografico, ma anche e soprattutto umano. Infonde coraggio, speranza e dà la riprova che un’alternativa c’è, altrettanto reale, altrettanto potente, altrettanto efficace. Che in verità scappare si può, o meglio, salvarsi.
Il maxilaboratorio è continuato anche dopo la produzione del film, estendendosi a tutte le discipline che riguardano la produzione cinematografica e continuando ad offrire a tutti i “polli” delle favelas la possibilità di liberarsi da quella trappola a tenaglia che vede i signori della droga da una parte e la polizia corrotta dall’altra asfissiare chiunque, volente o nolente, senza lasciare altra possibilità se non l’accettazione di una condizione crudele e disperata.
City of God è dedicato a tutti quei polli che, assistendo al massacro continuo e rivoltante dei propri simili, hanno tentato, tentano o vorranno tentare di andarsene e salvarsi. A tutti quei polli come Buscapè, che disperatamente e ferocemente cercano un’alternativa che gli permetta, se non altro, di avere una dignità.
E come al solito, il messaggio potrebbe essere molto più universale. Il pensiero potrebbe rivolgersi ad altrettante situazioni di trappola, ad altrettanti soffocamenti, ad altrettanti polli e ad altrettanti Buscapè. Dopotutto, Paese che vai, “favela” che trovi. Tutto sta nell’individuarla. E darle un’alternativa altrettanto potente.