Vita morte e miracoli di El Chapo, leader di un cartello della droga messicano ricercato da tempo e arrestato il 22 febbraio scorso.
[author][author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/carpen.png[/author_image][author_info]di Filippo Carpen. Neolauraeato (leggi disoccupato), svolta le sue giornate pedalando,leggendo e scrivendo (non mentre pedala). Ama la geopolitica, le relazioni internazionali e altre cose noiose; è estremamemnte sintetico.[/author_info] [/author]
27 febbraio 2014 – Quando sabato 22 febbraio, ho avuto la notizia dell’arresto del “Chapo”, mi è sembrato strano. L’uomo più ricercato del mondo è stato acciuffato? Logico, potrebbe pensare qualcuno, se sei l’uomo più ricercato del mondo, prima o poi ti troveranno. Logico, appunto, ma se sei il re del narcotraffico mondiale e sono 13 anni che nessuno sa dove ti trovi, forse la logica bisogna lasciarla da parte. Ma andiamo con ordine.
Joaquin Archivaldo Guzmàn Loera conosciuto come “El Chapo” (il tarchiato) per via della sua bassa statura, nacque 56 anni fa a La Tuna di Badiraguato, minuscolo centro abitato sperduto nella Sierra Madre nello stato di Sinaloa. La sua fu un’infanzia difficile, come per molti ragazzini nati in questa regione nord-occidentale al confine con gli Stati Uniti. Il padre, mandriano e contadino con un’indubbia passione per l’alcol, lo picchiava regolarmente e appena adolescente lo cacciò di casa. Rifugiatosi dai nonni, il Chapo iniziò a lavorare nei campi giorno e notte. Ebbe un’infanzia alquanto travagliata.
La svolta arrivò a vent’anni ed aveva nome e cognome: Pedro Aviles Perez. Questi era uno dei pezzi grossi del narcotraffico di Culiacan -capitale del Sinaloa- nonché lontano parente della famiglia Guzmàn-Loera. Dopo i primi lavoretti per conto dello zio, agli inizi degli anni ’80 fu presentato al boss del Sinaloa “El Guero” Palma Salazar, che offrì al Chapo la grande occasione. Divenne il responsabile del trasporto della droga dalla Sierra a Culiacan e da lì al confine con gli Stati Uniti, dove si sarebbe occupato anche dello smistamento. Deciso a non tornare a spaccarsi la schiena nei campi per 4 soldi, si dimostrò subito sveglio e spietato. I gomeros (contadini) della Sierra sapevano che non conveniva fregare El Chapo vendendo la droga ad altri acquirenti e nemmeno era immaginabile far tardare una consegna o per assurdo saltarla. Il Chapo non perdonava, mai. Il suo lavoro pulito, preciso e puntuale attirò l’attenzione di Miguel Angel Felix Gallardo conosciuto come “El Padrino”, che poco tempo dopo lo assunse nella sua organizzazione.
La figura del Padrino meriterebbe un approfondimento a parte. Tuttavia un paio di righe sono indispensabili per descrivere brevemente la centralità di questo personaggio, fondamentale per il proseguo della nostra storia. Miguel Angel Gallardo, ex membro della polizia federale messicana, fu l’uomo che verso la metà degli anni ’70, ebbe l’intuizione di virare su un prodotto semisconosciuto e dalle potenzialità di guadagno enormi: la cocaina. A quel tempo il monopolio della polvere bianca era appannaggio dei colombiani di Cali e Medellin. I messicani coltivano altro… papaveri e marijuana, che crescono ancora oggi rigogliosi sulle montagne della Sierra. El Padrino però aveva conoscenze importanti, che gli permisero di spuntare un accordo vantaggioso col capo dei capi, il leader del cartello di Medellin, Pablo Escobar. Agli inizi degli anni ’80 infatti qualcosa stava cambiando. La DEA, l’agenzia antidroga americana, stava iniziando a pattugliare intensamente il mar dei Caraibi e i porti d’accesso in Florida, principale punto d’approdo dei carichi di cocaina provenienti dalla Colombia. I sequestri iniziavano a essere troppi, Escobar “El Majico” era infastidito. Gallardo comparve al momento giusto. Il Messico, con i suoi oltre 3000 Km di frontiera era la soluzione a tutti i problemi. L’accordo che ne uscì fu vantaggioso per tutti. Ai messicani sarebbe spettato il 35% della merce se il trasporto verso gli USA si fosse rivelato agevole, in caso contrario si sarebberro assicurati il 50% del carico, che avrebbero potuto distribuire per conto proprio. E come sappiamo, il potere lo detiene chi distribuisce, non chi produce.
El Chapo intanto cresce sotto la sua ala e da lui impara a comportarsi. Niente auto sportive o abiti griffati, niente collane d’oro massiccio e feste sfarzose. Joaquin sa che per comandare veramente bisogna rimanere nell’ombra, non bisogna attirare troppo l’attenzione. Quando l’8 aprile del 1989 scattano le manette ai polsi del Padrino, il Chapo è pronto a prendere il suo posto. Si circonda di familiari e amici strettissimi e conferisce un modello mafioso alla sua organizzazione: il Cartello di Sinaloa. A differenza degli altri narcos lui è sveglio, sa come muoversi. L’arma che preferisce è la corruzione.
“Pare che una volta El Chapo fosse stato arrestato a Città del Messico. In questura, sbattè sul tavolo del comandante una valigia con 50 mila dollari in contanti. Nel giro di pochi minuti era ancora libero.”
Questa è solo una delle innumerevoli storie che circondano la sua figura e che Malcolm Beith autore de L’ultimo Narco racconta nel suo libro. È sempre stato il più sveglio di tutti, il Chapo, il ragazzo basso e grasso che aveva iniziato come gomero sulla Sierra Madre adesso, all’inizio degli anni ’90, a poco più di 30 anni è l’uomo che sposta tonnellate di cocaina dalla Colombia agli Stati Uniti. Se i fratelli Arellano-Felix, a capo del cartello di Tijuana, dominavano con la violenza e il terrore e Carrillo Fuentes boss di Ciudad Juarez preferiva ricorrere alla diplomazia, El Chapo costruiva alleanze. Lui, El Guero e il Mayo, i suoi più stretti collaboratori, stavano allungando i tentacoli su tutto il sistema politico e giudiziario messicano.
Ma nel 1993 qualcosa va storto. Viene arrestato in Guatemala, dove aveva riparato dopo essere sfuggito all’attentato tesogli dagli Arellano-Felix all’aeroporto di Guadalajara, in cui perse la vita il cardinale Juan Jesus Posada Ocampo. L’omicidio del cardinale, aveva suscitato scalpore e critiche in tutta l’opinione pubblica, inducendo il Chapo a defilarsi per qualche tempo. Ma Il 9 giugno un blitz dell’esercito guatemalteco poneva fine alla sua breve latitanza, estradato due giorni dopo in Messico, passò i successivi due anni nel carcere conosciuto come El Altiplano, nell’Estado de Mexico. Nel 1995 fu trasferito nel penitenziario di Puente Grande, stato di Jalisco, all’epoca uno dei tre carceri di massima sicurezza esistenti in Messico.
Nonostante fosse dietro le sbarre, il Chapo non ebbe mai particolari problemi nel continuare a gestire i suoi traffici. Secondo la DEA e la Procura generale, nel 1995, all’epoca del suo trasferimento a Puente Grande, il controllo operativo del narcotraffico nello stato del Sinaloa era stato affidato ad uno dei suoi fratelli minori, Arturo. Ma era lui, tramite i suoi avvocati, a comandare il fratello e ad assicurarsi che il business fosse saldamente nelle sue mani. In carcere il Chapo se la passava piuttosto bene, ora che non doveva più nascondersi dava libero sfogo a tutte le sue voglie. Feste con prostitute, alcol e cocaina erano la normalità, così come i succulenti pasti che i cuochi del penitenziario si premuravano di preparargli ogni giorno. Aveva a libro paga la quasi totalità del personale impiegato all’interno di Puente Grande: secondini, cuochi e addetti alle pulizie. Ma, si sa, la nostalgia di casa spesso prende il sopravvento. Così, il 19 gennaio del 2001, dopo otto anni di reclusione, era giunto il momento di salutare il carcere e tornare a guidare di persona il suo cartello. Tra l’altro, la Corte suprema messicana aveva approvato da poco una legge che rendeva molto più semplice l’estradizione nelle carceri statunitensi dei messicani con carichi pendenti oltre confine. El Chapo non poteva permetterselo, sapeva che le prigioni americane non erano come quelle messicane. Se fosse stato estradato avrebbe perso tutto.
Dopo un anno di progettazione e milioni di dollari spesi per corrompere le guardie, la sera del 19 gennaio si intrufola nel carrello dei panni sporchi, spinto da Francisco Camberos Rivera “El Chito”, un secondino diventato amico intimo del boss. Superati facilmente tutti i controlli, una volta nel parcheggio, sfilatosi la tuta beige e le scarpe da detenuto si nasconde nel bagagliaio di una Chevrolet Monte Carlo. El Chito mette in moto e supera il perimetro esterno del carcere, Il Chapo è libero. Un’ora più tardi si scatena la più grande caccia all’uomo mai vista in Messico, con posti di blocco ovunque: autostrade, statali, strade secondarie e aeroporti sono presidiati dagli uomini della Marina e della polizia, ma del Chapo nessuna traccia. La sua fuga diventa leggenda, i narcocorridos, le canzoni che celebrano le storie dei narcos, lo trasformano in un eroe. Per il governo messicano è uno smacco clamoroso, persino l’amministrazione americana è incredula. Come ha fatto uno dei boss più potenti del mondo a fuggire così facilmente da un carcere di massima sicurezza? Le voci sulla corruzione tra gli alti livelli del PAN, il partito di centrodestra fresco vincitore delle elezioni presidenziali, cominciano a circolare insistenti.
Per i successivi 13 anni il Chapo comanderà in lungo e in largo il narcotraffico mondiale. La sua organizzazione, oltre a rifornire di qualsiasi stupefacente gli Stati Uniti, estenderà il controllo anche alle rotte che conducono in Australia, Asia e Europa.
Ma stiamo parlando di droga e in un mercato aperto come questo sono decine i cartelli che vorrebbero fare le scarpe al Chapo. In particolare i Los Zetas e il Cartello del Golfo, che comandano sulla costa orientale del paese.
Nel 2006 il neoeletto presidente Felipe Calderon dichiara guerra aperta al narcotraffico e il Messico precipita in una spirale di violenza senza precedenti. Fino ad oggi, stime ufficiose, parlano di un numero di vittime che oscilla tra 80 e 100 mila, un’ecatombe.
Gli sforzi delle autorità messicane e della DEA per mettere le mani su quello che la rivista americana Forbes, dal 2009, inseriva ogni anno nella speciale classifica delle 100 persone più potenti del mondo, sono sempre un flop. Il Chapo dispone di una fortuna personale di 1 miliardo di dollari, ha informatori ovunque, riesce a dileguarsi sempre un attimo prima che i militari lo bracchino. Intanto aerei, camion, automobili e imbarcazioni non interrompono mai il flusso di droga verso gli Stati Uniti e il resto del mondo.
Tuttavia, sabato 22 febbraio il colpo di scena. Joaquin Archivaldo Guzman Loera viene arrestato a Mazatlan, località turistica del Sinaloa. Come si scoprirà in seguito, le forze speciali messicane stavano facendo terra bruciata intorno al leader da circa un mese. Probabilmente una soffiata ha messo fine alla latitanza del “Nemico Pubblico Numero 1”, come lo aveva definito la commissione anticrimine di Chicago, roccaforte del cartello sinaloano negli States. Nessuno sa ancora dire se il Chapo sia stato tradito – sulla sua testa pendeva una taglia da 5 milioni di dollari – oppure si sia “sacrificato” sentendosi ormai braccato. Nelle prossime settimane riusciremo a saperne di più.
Intanto, sulle montagne della Sierra, qualcuno canticchia la storia del Chapo.