Tutta colpa di Ludovico W.

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Un po’ diario e un po’ reportage, il racconto realistico -pertanto mai serio- dell’esperienza di una filosofa che, nell’horror vacui fra un contratto precario scaduto e il miraggio di quello successivo, dà una mano in una stalla piena di pecore e di pensieri.[/note]

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/PA070043.jpg[/author_image] [author_info] Irene. Nel 1984 nasco a Savona, probabilmente per una svista balistica della cicogna: appena riesco rimedio all’errore spostandomi in montagna, con la scusa di un dottorato in antropologia alpina. Prima avevo avuto la faccia tosta di laurearmi in filosofia. A me è Wittgenstein che mi ha rovinata: oggi scrivo, faccio la guida naturalistica e mi arrangio. Mi piace tutto quello che faccio.[/author_info] [/author]

 

28 febbraio 2014 – Me, mi ha rovinata Wittgenstein, che aveva il pensiero adamantino e nel contempo insondabile come il fondo della moka quando la pulisci ogni anno bisestile: è stata colpa di quel matto geniale se ogni tanto, mentre son lì tutta assorta dalla scrittura e mezza inebetita dal riverbero dello schermo, riemerge il monito: “trovati un lavoro manuale”. Ludovico W., che quando pensava dava ordine a tutto ciò che di ordinabile ci può essere al mondo, come Mago Merlino quando trasloca e libri e tazzine si infilano da soli nella valigia, proprio lui non era soddisfatto del solo pensare, gli sembrava che non fosse abbastanza dignitoso, che la semplice filosofia non fosse sufficiente alla dignità (Anwendigkeit) della propria vita e professione.

Il fatto è che sento che non ha mica torto.

Peraltro è proprio quando le mani e la schiena hanno faticato il giusto, che sembra come di affilare, di far la punta al cervello: che poi uno arriva a casa e con tutta questa grafite cerebrale acuminata ha una voglia di scrivere che quasi salta cena per mettersi al computer (ho detto quasi). Sembra sussistere una proporzione diretta fra la quantità di strame delocalizzata (letame spalato) e numero di caratteri ispirati che vengono prodotti in seguito (merda scritta? ohibò): è un fatto curioso, no?

 

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L’esordio

Munita di tuta e stivali faccio capolino nella stalla, segnando un punto a mio favore quando esclamo, dandomi un tono da “Elementare, mio caro Watson”: “Roaschine!” (riferendomi alla razza delle pecore). Leone annuisce con un lampo di stupore negli occhi, di sicuro pensando “fa fatica a distinguere i maschi dalle femmine, ma ne riconosce la razza: mah…”). Adesso il trucco è, se interpellati, rifiutarsi di ammettere, anche sotto tortura, che l’unico motivo per cui ho riconosciuto queste pecore è che il primo saggio di antropologia alpina che ho letto era dedicato proprio ai pastori di Roaschia e alle relative greggi.

E’ Leone che al momento si occupa di questa stalla a gestione famigliare e mungitura manuale ed è lui che mi spiega cosa fare e come. Ha 21 anni e i ricci come gli agnelli quando hanno i riccioli belli o, a scelta, come una statua greca di Antinoo o di Apollo. Si muove scavalcando greppie e recinzioni con disinvoltura, spiegandomi questo e quello, mentre lo inseguo agile come il primo pesce preistorico che ha osato spingersi al di fuori delle acque. Mi spiega le cose con pazienza e quando c’è da dirmi che cosa fare lo fa sempre con una formula gentile: “hai voglia di”, “c’è da”, “faresti”, “per piacere”. Quando combino qualcosa di particolarmente goffo o malfatto mi corregge con garbo e sono i momenti in cui ringrazio di esser femmina perché sono quasi sicura che se fossi un uomo mi avrebbe già coperto di insulti.

 

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Le pecore e l’altoforno

Nella stalla ci stanno duecentocinquanta pecore, una cinquantina di capre e Freezer, un vitello con gli occhi a forma di cuore che sembra l’ingrandimento di un trudino, ma il cui nome non lascia dubbi sul destino che gli è riservato. La stalla è inoltre bivacco per manipoli di gatti spudorati, in cerca di un giaciglio caldo ma soprattutto del latte, che quotidianamente tentano di sottrarre agli agnellini allattati con i ciucci che pescano da una grande scatola di plastica (ora: immaginate un gatto messo a stella marina appoggiato ai bordi di una scatola verde piena di latte in cui affondano i ciucciotti degli agnelli, che tenta di raggiungere con la sua ruvida linguetta il liquido tiepido mentre un certo numero di testoline affamate scuote il contenitore a colpi di naso e di vigorose succhiate. Immaginate zampette che scivolano, vibrisse inzuppate, acrobazie da funambolo per non finire a mollo: ecco se sono di cattivo umore penso a uno stupido gatto goloso che tenta senza troppa fortuna di rubacchiate il latte agli agnellini – di solito funziona).

 

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Tutto intorno alla stalla tartufi e occhietti di cane, un tripudio di zampette fangose festaiole: un mondo di code scodinzole che non ti molla un minuto. Leone mi accenna il funzionamento dell’ordinaria amministrazione della stalla, che è un meccanismo di svizzera precisione di porte e recinti che vanno aperte o chiuse varie volte al dì per separare, scaglionare, nutrire diversamente le pecore gravide, quelle asciutte, quelle con il latte, gli agnellini, gli agnelloni, le capre, il vitello, un tran tran quotidiano di pance che reclamano, si riempiono, ruminano, si svuotano, protestano, partoriscono, talvolta si ammalano e allora c’è da preoccuparsi e capire e curare alla svelta.

L’ordinaria amministrazione di tutte quelle pance (non sono state ancora nominate Panna, vacca monumentale e dispettosa, sua figlia Lara e due cavalle di cui la giovane, Curenta, parecchio agitata) richiede una montagna di tempo e di fatica non posticipabili.

E qui entro in crisi. Il lavoro allenerebbe a poco a poco il corpo alla vita in campagna, ma non riuscirei a convincere la testa a farsi dettare il ritmo dalla vita degli animali e dalle esigenze quotidiane dell’azienda agricola. Dalla muta richiesta di centinaia di occhietti non si scappa: non si può saltare un turno, chiudere bottega nemmeno per un giorno, rintanarsi sul divano per un paio d’ore rimandando a più tardi. Verso sera, quando dopo aver pulito le mangiatoie c’è da apparecchiare le granaglie e il fieno mentre decine di sguardi speranzosi iniziano ad allinearsi lungo le greppie (o forse sono sguardi spazientiti, ché la nuova cameriera è parecchio lenta), mi viene da pensare che questa distesa di lana e appetito è anche peggio di un altoforno che non può interrompere il suo ciclo continuo, pena il collasso.

 

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Qui anche se è il pastore a collassare non c’è verso: the show must go on. Anche se magari non stai bene o quel giorno andresti tanto volentieri a spasso. Ma gli animali non aspettano, impongono, esigono una disciplina di vita straordinaria. Sono quel che ti dà da vivere, ma in più sono un capitale vivo, che non vuoi né puoi permetterti di far soffrire. Negli anni ’50 e ’60 molti se ne sono andati da queste montagne barattando la propria piccola gabbia contadina con una grande prigione di cemento, ma in quello scendere a valle c’era anche la voglia di vedere se non si potesse strappare un po’ di tempo al lavoro, non piegare più la schiena sulla terra, ma girargliela questa schiena stanca, almeno per un pochino. Poi s’è esagerato forse, e a forza di girarle le spalle adesso nemmeno sappiamo più riconoscerla e farcela amica, la terra, con i suoi ritmi, le sue esigenze. E allora? E allora sticazzi, commenterebbe il saggio di Rebibbia. Per me i pastori sono dei supereroi, non c’è altra spiegazione.

 

 



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