Trentatré morti e oltre 130 feriti è il bilancio ufficiale dell’attacco nella provincia sud-occidentale dello Yunnan. Le autorità cinesi accusano i separatisti dello Xinjiang
di Gabriele Battaglia, da Pechino
Trentatré morti e oltre 130 feriti è il bilancio ufficiale dell’attacco avvenuto nella serata di sabato alla stazione di Kunming, capoluogo della provincia sud-occidentale dello Yunnan
A tre giorni dalla strage, le autorità cinesi hanno comunicato che gli aggressori erano otto, tra cui due donne: oltre ai quattro uccisi dalla polizia sul luogo, c’è una donna ferita e piantonata in ospedale, più “altri tre che sono stati catturati”, ha detto l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua citando una dichiarazione del ministero della Pubblica Sicurezza. Il capo della banda è stato identificato in tale Abdurehim Kurban. Si attendono ulteriori chiarimenti, se mai ce ne saranno.
Le autorità cittadine avevano da subito parlato di un “attacco terroristico organizzato” e accusato “separatisti dello Xinjiang”, esibendo come prova una bandiera recante la scritta “non c’è altro dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo profeta”, ritrovata sul luogo della strage. Gli attentatori, mascherati e vestiti di nero, si erano avventati all’arma bianca, indiscriminatamente, sui viaggiatori in transito in uno dei più trafficati snodi ferroviari cinesi.
Il presidente Xi Jinping ha subito ordinato la violenta repressione dei terroristi, mentre il World Uyghur Congress – organizzazione dei fuoriusciti uiguri con sede in Germania – sostiene che un così immediato collegamento tra la strage e la minoranza musulmana della regione autonoma rivela se mai come la ricostruzione ufficiale non sia accurata.
L’attacco è avvenuto alla vigilia dell’apertura della Conferenza consultiva del popolo (lunedì) e del Congresso nazionale del popolo (mercoledì), un doppio appuntamento politico ricorrente e molto sensibile, perché è tutto interesse della leadership cinese trasmettere in questo periodo un’idea di stabilità. La Conferenza si è aperta con un minuto di silenzio per commemorare le vittime.
I media di Stato definiscono già la strage “03.01”, con chiaro riferimento all’“11 settembre” statunitense, il che lascia intendere una dura reazione di Pechino, simile a quella che portò alla protratta global war on terror statunitense. Solo che in questo caso il “nemico” è all’interno dei confini nazionali. Appare chiaro il messaggio che gli aggressori volevano trasmettere: possiamo colpire ovunque.
È improbabile che sia davvero così, ma l’intento “dimostrativo” della strage consiste proprio nell’instillare nel cinese qualunque il sospetto che invece lo sia e, quindi, nel suscitare terrore.
Perché Kunming, poi? Alcuni esperti avanzano l’ipotesi che la scelta della capitale della provincia dove coesiste il maggior numero di minoranze etniche intenda suscitare spirito di emulazione.
I media plaudono perciò al preveggente insediamento di una “commissione per la sicurezza”, decisa dalla leadership cinese lo scorso novembre e presieduta dallo stesso Xi Jinping.
Intanto fioccano le scioccanti testimonianze chi ha assistito all’attacco, mentre in rete si sprecano reazioni di tutti i tipi: da quelle esasperatamente nazionaliste, finanche razziste nei confronti della minoranza musulmana dello Xinjiang, a quelle semplicemente addolorate e scioccate.
In questo quadro, la stampa ufficiale fa di tutto per non fomentare tensioni interetniche e riporta per esempio le dichiarazioni di funzionari e militari dello Xinjiang di etnia uigura che, oltre a condannare fermamente l’attentato, spiegano come si stia procedendo a reprimere con la massima efficienza militare infiltrazioni jihadiste che provengono dall’Asia centrale. È un dato di fatto che in tutti gli episodi cruenti degli ultimi anni non siano mai state utilizzate armi più sofisticate di quelle “bianche”, il che rivela l’efficienza delle autorità cinesi nel reprimere la circolazione di armi da fuoco ed esplosivi.
Nell’operazione “siamo tutti di Kunming” – anche qui si citano precedenti slogan made in Usa – Xinhua ha riportato la storia di un cittadino uiguro che, dopo, essere andato a donare il sangue all’ospedale di Kunming, si è rivolto verso la folla in attesa di fronte alla clinica, ha fatto un profondo inchino, e ha chiesto scusa a nome della propria gente.
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