Cosa sarà del Venezuela bolivariano senza il suo leader carismatico?
di Angelo Miotto
Un anno fa la notizia della morte di Hugo Chávez, calzoni mimetici e camicia rossa, basco e bibbia minuta nel suo taschino, crocifisso e citazioni marxiste, bolivariano fino al midollo, retore eccellente, fulminante nelle battute, capace di maratone letali per il proprio uditorio con ore di discorsi. Del suo percorso in un Venezuela dove la rendita dell’oro nero era destinata solo alle classi dominanti è rimasta una traccia profonda.
Ma la domanda su cosa gli sarebbe sopravvissuto si poneva già ben prima della sua malattia, quando era evidente agli occhi di molti analisti e studiosi delle nuove geometrie progressiste del Continente Sud che la visione del presidente venezuelano aveva contemporaneamente un’ambizione che solo i visionari hanno, e che, eppure, molti punti di quel cammino venivano affrontati realizzati.
Oggi con quasi due decine di morti per le strade del Venezuela, un golpe suave come lo ha definito la presidentessa argentina Cristina Fernandez, le denunce del Dipartimento di Stato Usa e della stessa Casa Bianca e il lavorio continuo delle opposizioni, nelle strade e soprattutto sui media, l’immagine è quella di un Paese con un presidente, Nicolas Maduro, che si è trovato a gestire un’eredità impossibile da gestire.
Fra i pregi e i tanti difetti, una personalità come quella di Huga Chávez, capace di sollevarsi, fare carcere, risollevarsi in armi, prendere il potere, convocare elezioni e vincerle contro opposizioni, settori della finanza e dell’aristocrazia legati a doppio filo con gli Stati Uniti e la vicina Colombia, l’ideale bolivariano di unire popoli e rivendicazioni sociali è stata forse una delle sue principali visioni in cui è riuscito a creare un fronte comune. Il Venezuela, divenuto una solida spalla politica per la Cuba di Fidel, incontrò negli anni del primo chavismo il vento delle elezioni che portarono presidenti progressisti in quasi tutto il Latino America, fino a far crollare il progetto economico e del commercio che Washington voleva fortissimammente: l’Alca. Il trattato del libero commercio delle Americhe, mi diceva al microfono anni fa un commentatore politico, sarebbe stato come mettere una volpe dentro un pollaio. L’immagine rende più di dieci torte numeriche e le pressioni che furono spese dall’amministrazione Bush, il famoso Mr. Danger come venne ribattezzato da Hugo Chávez, non riuscì a piegare il numero dei paesi che si pronunciò per far cadere quel progetto di egemonia finale a stelle e strisce.
I rapporti fra Caracas e Usa, che si basano solo sul petrolio, subirono pesanti contraccolpi. Fino ad arrivare all’11 aprile del 2002, con il golpe Carmona, confindustriale, che vide il trasferimento di Chávez in una prigione sconosciuta e l’intervento dal basso, del popolo, dei motociclisti bolivariani, a liberare il proprio presidente, riportato indietro dai suoi paracadutisti.
Erano gli anni della Spagna aznariana, che per prima si affrettava a riconoscere il governo golpista, quando gli ‘amichetti’ di Aznar erano a capo di tutte le imprese di energia, telefonia, estrazione e raffinazione di idrocarburi e fornitura d’acqua spagnole, che in latino America facevano grandi affari spesso alla faccia della popolazione dei singoli paesi.
La domanda sul chavismo che resta, non il mito o la leggenda – perché quella è già storia su Chávez -, rimane nell’aria e l’eredità ingestibile per Nicolas Maduro è evidente nell’ultimo mese di disordini di piazza, orchestrati e in parte anche sicuramente genuini. Ma al di là della cronaca sono ancora rimaste disattese, prima dallo stesso Chávez e poi dal nuovo presidente e dal partito socialista bolivariano, le grandi riforme: quelle dell’agricoltura, quella contro la criminalità che blocca il turismo di massa, quella che avrebbe dovuto ridefinire i poli industriali, cioè quelle che avrebbero in qualche maniera aiutato a disfarsi dall’assuefazione alla rendita petrolifera.
Maduro oggi si trova in una situazione particolarmente scomoda e difficile: prova i toni e la dialettica del suo predecessore, senza possederne il carisma. Viene individuato dai nemici giurati come un obbiettivo alla portata di un cambiamento, quindi un buon bersaglio per quelle che sono state definite tecniche di ‘golpe suave’: agire sulla base della protesta asociale e della stretta dei beni di prima necessità – beni chiusi nei magazzini – per arrivare a stremare una parte, quella meno convinta, della popolazione bolivariana.
Ma il dato di 18 elezioni su 19 vinte dal partito bolivariano e le elezioni dell’8 dicembre scorso, che avrebbero dovuto sancire la sconfitta di Maduro nelle amministrative e che hanno visto invece respinte le opposozioni di Henrique Caprile e Leopoldo Lopez, hanno affermato un messaggio diverso, rispetto a una decadenza prematura.
Senza il suo leader, senza la sua vera e unica retorica e capacità di visione e senza più quel vento una volta così impetuoso nelle affermazioni elettorali per i progressisiti, il sogno bolivariano si trova di fronte a quella frase che il presidente lanciava dai palchi con voce stentorea: socialismo o muerte. Che ben al di là di prefigurare una guerra civile sanguinosa significa la possibilità di un fallimento di un progetto. Con un dubbio profondo: l’amore, l’attenzione dimostrata dal governo bolivariano di Hugo Chávez è sempre stato rivolto verso le classi sociali più povere. Con errori o in qualche caso anche con interventi che spingessero i più poveri verso la generosità del presidente.
Non è stato marketing, le cose si son fatte davvero, restituendo protagonsimo a quella parte di società che non aveva mai sperimentato prima attenzioni di questo genere. Un seme che può germogliare, anche contro ogni previsione.
A un anno dalla morte di Hugo Chávez il panorama è più che mai confuso, anche per la grande opera di intossicazione mediatica che le opposizioni sono capaci di utilizzare. Un anno è poco per capire. Sempre che Maduro e i suoi siano capaci di conquistare lo spazio politico per dimostrare che la visione non è morta con il presidente.
Alcuni dati raccolti da tre accademici sui risultati ottenuti nell’era Chávez in campo sanitario:
*calo della mortalità infantile dal 25 per mille nel 1990 al 1 per mille nel 2010;*Accesso ad acqua acque pulite per il 96% (dato impressionante) della popolazione (che era uno degli obiettivi della rivoluzione);
*Nel 1998 si potevano contare 18 dottori ogni 10.000 abitanti, oggi sono saliti a 58 e la sanità pubblica conta 95.000 medici;
*Ci sono voluti decenni di governi precedenti per costruire 5.081 ospedali, mentre in soli 13 anni il governo bolivariano ne ha costruiti 13.721 (un incremento del 169,6%);
*Barrio Adentro (ovvero il programma di assistenza reso possibile dall’aiuto di 8.000 medici cubani) ha salvato la vita a circa 1,4 milioni di persone in 7.000 ospedali e conta 500 milioni di visite;
*Solo nel 2011, 67.000 venezuelani hanno ricevuto gratuitamente farmaci di norma costosi per 139 diverse patologie tra cui il cancro, l’epatite, l’osteoporosi, la schizofrenia e altre; ci sono ad oggi 34 centri per le dipendenze;
*In 6 anni 19.840 senzatetto sono entrati in programmi speciali, e praticamente non ci sono bambini di strada;
*Il Venezuela ha oggi la più grande unità di terapia intensiva della regione;
*Una rete di 127 farmacie pubbliche vende medicine a prezzi agevolati permettendo di risparmiare il 34-40%;
*51,000 persone hanno ricevuto trattamenti oculistici specializzati grazie al programma oculistico “Misión Milagro” che ha ridato la vista a 1,5 milioni di venezuelani;
Le vicende del 2011, anno in cui forti piogge tropicali hanno lasciato senzatetto 100.000 persone, sono un esempio di come il governo abbia saputo prontamente rispondere ai bisogni reali della popolazione. Gli sfollati vennero immediatamente messi al sicuro in edifici pubblici ed alberghi e, in 1 anno e mezzo soltanto, il governo ha costruito 250.000 case.
Prima del governo Chàvez nel 1998, il 21% della popolazione era denutrita. Il Venezuela ha ora istituito una rete di distribuzione alimentare assistita comprensiva di alimentari e supermercati. Mentre nel 1980 il 90% del cibo era importato, ora le importazioni sono meno del 30%. Misión Agro-Venezuela ha concesso 454.238 prestiti a produttori agricoli e 39.000 di essi hanno ricevuto un prestito solo nel 2012. 5 milioni di venezuelani ricevono cibo gratuito, 4 milioni di essi sono bambini nelle scuole e 6.000 cucine sfamano 900.000 persone. La riforma agraria e le politiche di sostegno rivolte ai produttori agricoli hanno migliorato la catena di distribuzione alimentare domestica. I risultati di tutte le misure adottate in materia di sicurezza alimentare sono un tasso di malnutrizione pari solo al 5% e la denutrizione infantile che è scesa dal 7,7% nel 1990 al 2,9% di oggi
Carles Muntaner è professore di Infermieristica, Sanità Pubblica e Psichiatria all’Università di Toronto. Ha lavorato per più di 10 anni sugli aspetti della sanità pubblica nella rivoluzione bolivariana, ad esempio “History Is Not Over. The Bolivarian Revolution,
Barrio Adentro and Health Care in Venezuela”, scritto da Muntaner C, Chung H, Mahmood Q and Armada F. e “The Revolution in Venezuela” di T. Ponniah and J. Eastwood, Harvard University Press, 2011.
María Páez Victor è una sociologa venezuelana, specializzata in salute e medicina.
Joan Benach è professore di sanità pubblica alla Universitat Pompeu Fabra, di Barcellona. Ha collaborato per molti studio sulle politiche sanitarie nella rivoluzione bolivariana
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