Il possibile ingresso della Guinea Equatoriale nella Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese porterà centinaia di milioni nelle casse di Lisbona. Il rischio, però, è quello di fare affari con un partner poco affidabile
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-20-alle-18.34.04.png[/author_image] [author_info]di Marcello Sacco, da Lisbona.Nato a Lecce, vive da anni a Lisbona, dove lavora come professore, traduttore e giornalista freelance[/author_info] [/author]
6 marzo 2014 – Circa due anni fa, il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, all’epoca fresco di nomina, fu protagonista di un piccolo incidente diplomatico. Il premier portoghese Passos Coelho aveva realizzato una visita di Stato in Angola, in cerca di capitali per le privatizzazioni in agenda, e Schulz, durante un dibattito pubblico a Bruxelles, disse pensieroso (qui il video) che quello era un chiaro segnale di declino per il Portogallo e che l’Europa – se voleva continuare a essere un modello di sviluppo non solo economico, ma anche politico e culturale – doveva reagire alla piega che le cose stavano prendendo. Non si è ancora registrata nessuna sua reazione a una notizia più recente, sebbene l’eurodeputata socialista Ana Gomes abbia promesso che porterà il caso a Strasburgo.
Si tratta della strana adesione – per ora solo annunciata, ma potrebbe essere ratificata l’estate prossima – della Guinea Equatoriale alla CPLP. La sigla sta per Comunità dei Paesi di Lingua Portoghese, ed è quindi un’organizzazione internazionale che raggruppa Portogallo, Brasile e le altre ex colonie lusofone.
Si dà il caso che la Guinea Equatoriale sia un’ex colonia spagnola e stia ai Paesi di lingua portoghese un po’ come l’India o il Kenya (Vasco da Gama, in fondo, fu il primo vip a sbarcare a Malindi): a parte qualche scopritore antico passato alla storia, non c’è nessun sostrato linguistico-culturale comune, né alcun passato recente fatto di rapporti anche conflittuali, ma tutto sommato autentici. Per essere ammessa al club, la Guinea Equatoriale dovrà infatti introdurre per decreto il portoghese fra le sue lingue ufficiali. E dovrebbe anche, piccolo dettaglio, abolire la pena di morte, su cui per ora ha promesso una moratoria, tanto per condire di suspense l’attesa del patibolo degli attuali condannati.
Il punto dolente, infatti, è che la Guinea Equatoriale è guidata dal più vecchio leader africano in carica, Teodoro Obiang Nguema Basogo, in sella dal golpe dell’agosto 1979 (un mese di anzianità in più rispetto al presidente angolano José Eduardo dos Santos).
È una di quelle nazioni ricchissime, la Guinea, i cui cittadini se la passano malissimo: tra i maggiori estrattori di petrolio in Africa, ha il Pil pro-capite fra i più alti al mondo (32 mila dollari), ma l’indice di sviluppo umano nel sottoscala della dignità minima accettabile. In Italia, le carceri equatoguineane fanno di tanto in tanto notizia per il caso del nostro connazionale, l’imprenditore Roberto Berardi, che laggiù si era messo in società con il figlio del presidente, Teodorín, forse senza capire bene dove andava a cacciarsi, visto che sul rampollo degli Obiang pende anche un mandato di cattura internazionale emesso dalla giustizia francese, nell’ambito di un’inchiesta sul riciclaggio di danaro sporco.
A dire il vero, fino all’ultimo il Portogallo si era opposto all’ingresso del Paese nella CPLP. Almeno fino alla recente riunione dei ministri degli Esteri della comunità lusofona, che hanno espresso il loro parere favorevole, da concretizzarsi probabilmente nel summit di Timor Est, il prossimo luglio. A dissolvere le ultime riserve dei portoghesi deve aver contribuito pesantemente la proposta di staccare, tramite un’impresa locale, un assegno da oltre 133 milioni di euro; prezzo tutto sommato ragionevole per una famiglia come gli Obiang, da sempre ben posizionata nelle classifiche di Forbes.
Quei milioni servirebbero per la seconda fase (aperta agli investitori esteri, dopo che la prima fase aveva ulteriormente prosciugato le tasche dei contribuenti portoghesi) di ricapitalizzazione dell’ennesima banca lusitana in crisi di liquidità, il Banif di Madeira, per anni braccio finanziario del governatore indipendentista dell’isola, Alberto João Jardim; sorta di incrocio culturale, e persino fisiognomico, fra Bossi, Calderoli e l’ex sindaco di Taranto, Giancarlo Cito.
Insomma un affare molto periferico e allo stesso tempo assai europeo e comunitario: soldi equatoguineani in sinergia con i fondi che in questo momento stanno risanando (ma sul verbo “risanare” il dibattito rimane aperto) l’economia di un Portogallo in piena crisi del debito. «Stiamo utilizzando il danaro di contribuenti non solo portoghesi, ma anche europei!», esortava a non dimenticare l’ex ministro socialista Luís Amado, una volta passato all’opposizione. E la sua compagna di partito, Ana Gomes, minaccia ora battaglie a Strasburgo, mentre anche intellettuali del calibro di Chico Buarque e il narratore mozambicano Mia Couto firmano una lettera di protesta al premier di Timor, Xanana Gusmão, uno che il carcere sotto dittatura l’ha conosciuto bene ai tempi dell’occupazione indonesiana. Solo Amado, nel frattempo, pare abbia assunto un atteggiamento più discreto, in quanto neoeletto presidente del consiglio di amministrazione, guarda caso, di quel Banif così bisognoso di capitali. Il silenzio è d’oro e, alla quotazione attuale, vale 133 milioni.