Omaggio alle giovani donne italiane che vivono e lavorano in Libano, alle loro storie di cui in Italia arriva solo qualche eco stereotipato
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/Clara-Capelli-NFC-Tunis-2013-Picture.jpg[/author_image] [author_info]di Clara Capelli, da Beirut. Dottoranda in economia dello sviluppo con la passione per la lingua araba, si occupa di mercato del lavoro in Nord Africa e Medio Oriente. Ha lavorato in Cisgiordania, Libano e Tunisia, ma non ha ancora capito quale Paese le piaccia di più. [/author_info] [/author]
8 marzo 2014 – È l’otto marzo e sono a Beirut. Dovrei scrivere della condizione della donna qui. Delle oppressioni di varia foggia o dei folli ideali di bellezza rincorsi da alcune libanesi a colpi di palestra e botulino. Oppure dei problemi delle immigrate africane e asiatiche, troppe volte trattate come vere e proprie schiave.
Invece voglio rendere omaggio ad alcune giovani italiane che lavorano in Libano, alle loro storie di cui allo Stivale arriva solo qualche eco stereotipato.
Sarebbe riduttivo presentare S. come una semplice insegnante di italiano. La sua energia tracima ogni etichetta. Sempre impegnatissima, sempre in movimento tra il suo lavoro all’Istituto di Cultura Italiano e quello in università, a sua volta ripartito tra Beirut e Sidone. Quando non insegna si prepara per le lezioni da tenere con una coscienziosità e un entusiasmo esemplari. E se non lavora studia, portando avanti la sua passione per la geografia politica di Beirut, tema della sua tesi di laurea. Pochi expat (e, permettetemi, pochi libanesi) conoscono la città bene quanto lei, la storia dei suoi quartieri e dei suoi abitanti, i molti angoli di bellezza nascosti dalle cicatrici della guerra e dalla speculazione edilizia. Ogni passeggiata con lei è una scoperta, una finestra che si apre sul Libano e sull’arabo libanese, lingua che lei parla come una vera madrelingua.
A. lavora per le Nazioni Unite e si occupa di progetti di istruzione in un Paese dove non potersi permettere l’accesso ai servizi privati è una condanna all’emarginazione. È superfluo raccontare il carico di stress che le grava addosso da quando ha iniziato anche a lavorare sull’emergenza dei rifugiati siriani e sull’assistenza ai bambini che hanno dovuto abbandonare la scuola a causa della guerra. Eppure non si lamenta mai: il suo lavoro la segue anche a casa, perché non è un insieme di mansioni da svolgere, tutt’altro. La cosa più bella è ascoltarla di quando era “a Parigi a studiare”, “in Giordania e Siria per ricerca”, “in Brasile per uno stage”, “in Yemen per perfezionare l’arabo”. Un curriculum impressionante, tutte esperienze conquistate con sacrifici e fatica. La sua è la lingua tipica di chi ha passato tanto tempo in Libano, un miscuglio di inglesefranceselibanese, meticcio come le culture dei questo Paese.
Se. è la piccolina qui: neanche 27 anni compiuti, è appena partita per la Siria con il Comitato Internazionale della Croce Rossa. Un altro curriculum da lasciare a bocca aperta, un’altra storia fatta di studio e tirocini in ogni dove tra Europa, Medio Oriente e Nord Africa. Quale lingua parla meglio? Impossibile dirlo, come dicono ammirati i suoi colleghi. Prima in Libano e ora a Damasco si occupa di detenuti e persone scomparse: un compito difficilissimo e devastante dal punto di visto psicologico. Ma vissuto e raccontano senza spocchia, solo una forte motivazione a imparare e tanta disponibilità: anche se è fuori dal suo orario di lavoro e avrebbe tutto il diritto di rilassarsi, risponde al telefono e ascolta le famiglie di persone scomparse che chiedono aggiornamenti e informazioni.
E poi ci sono moltissime altre italiane tostissime, sparse un po’ per il tutto mondo. C’è V., che lavora in un orfanotrofio in Tanzania: mille difficoltà logistiche, lontanissima da casa e con poco supporto in loco. M., impiegata in Libia in una società del settore petrolifero, in un contesto non solo teso – per usare un eufemismo – ma indubbiamente poco favorevole per una donna. F., consulente alla Banca Africana di Sviluppo per un innovativo progetto di promozione dell’imprenditorialità giovanile nella Tunisia del dopo Ben Ali. Al., due anni di esperienza di lavoro come cooperante tra Zambia e Zimbabwe, ora a SOAS per un Master, risoluta a migliorare ancora la propria professionalità.
Tutte giovani, poliglotte, professionali, talentuose e appassionate. Nessuna “figlia di papà”, ogni cosa è stata ottenuta con duri studi, tirocini (spesso prestigiosi, ma sempre malpagati) e infinita determinazione. Nessuna di loro si lamenta perché “in Italia questo non l’avrei potuto fare”. Ne avrebbero probabilmente diritto, ma il punto è un altro: loro guardano al mondo e ci vivono. Non sono esuli, ma vere professioniste internazionali che tengono altissima la reputazione dell’Italia fuori dai suoi confini.