A Porcia non si difende solo il posto di lavoro, ma anche la storia di un’azienda, la Zanussi, e il futuro di migliaia di persone dipendenti dalla fabbrica friulana
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di Antonio Marafioti
14 marzo 2014 – La scena non è nuova. Un picchetto di operai davanti alla fabbrica che attendono notizie da Roma e sanno che non se ne parlerà prima di due settimane. C’è una tenda con scorte di viveri, striscioni di protesta stampati o scritti con vernice indelebile, i comunicati dei tre sindacati sparsi dappertutto e una cassetta di raccolta fondi trasparente con un foglio sgualcito sul quale si legge: “pro vertenza Electrolux”. Dentro si scorge una manciata di monete e banconote da dieci e cinque euro.
A Porcia, Pordenone, è questa la prima polaroid davanti alla sede dell’Electrolux. Non si difende solo il posto di lavoro fuori dai cancelli della fabbrica, ma anche una storia comune: quella della Zanussi. Creata dal patron Lino nel 1916, ha dato occupazione a tre generazioni di pordenonesi. Fino al 1984, quando il colosso svedese degli elettrodomestici decise di rilevarla. «Al tempo non c’era storia. Loro producevano 200mila lavatrici all’anno, Zanussi almeno un milione», racconta il segretario della Uilm di Pordenone, Roberto Zaami. «L’azienda era molto forte, un fiore all’occhiello del settore secondario italiano, teneva il mercato benissimo e impiegava oltre ventimila dipendenti. I problemi finanziari arrivarono quando si decise di acquisire piccole imprese in fallimento. Si fecero debiti e si dovette vendere agli svedesi». Che rilevarono il colosso italiano grazie a un finanziamento da 75 miliardi di lire concesso dal governo regionale e al prepensionamento di 4.600 lavoratori, per rendere più solide le casse della italiana e favorire l’affare.
C’è un affetto particolare per quel cognome, qui a Porcia. Per gli operai, Zanussi non è solo il padrone, ma anche un pater familias. Vestono gilet da lavoro con il doppio marchio, si riferiscono all’impresa come se il 1984 non fosse mai passato. Perfino diecimila lavatrici l’anno, su un totale di un milione e centomila prodotte, sono marchiate ancora Zanussi. «È importante mantenere alto questo orgoglio. Negli anni, Electrolux ha portato a termine una politica dei marchi che ha gradualmente provocato la scomparsa di nomi storici come Rex, Zoppas, Artur Martin, che prima di essere aziende erano il simbolo di una comunità».
L’appartenenza al luogo sta tutto in uno striscione giallo appeso al recinto esterno che recita “Noi siamo la Zanussi”. Sventola all’ombra delle Prealpi dal 27 gennaio scorso, quando, spiega Maurizio Marcon, segretario della Fiom Pordenone, «la multinazionale ha comunicato sia un taglio del costo dei premi di produttività, 2.525 euro l’anno ad operaio, sia che per Porcia non era previsto alcun piano d’investimento. Da quel momento attuiamo una tattica di protesta cosiddetta del “vuoto per il pieno”, che consiste nel permettere solo l’uscita delle lavatrici prodotte nel corso della giornata e l’entrata dei camion vuoti. Per assicurarci che tutto funzioni, controlliamo le bolle d’accompagnamento».
Significa che le scorte in magazzino, che ammontano a circa 40mila unità, rimarranno bloccate all’interno dei 70mila metri quadri industriali, finché non verrà fatta chiarezza sul futuro degli operai. Dal 22 marzo 2013, dopo la stipulazione di un accordo fra azienda e sindacati, vige un patto di solidarietà “6 più 2”. L’azienda paga sei ore e l’Inps le altre due. Si lavora di meno, ma si lavora tutti. Ora si attende il rifinanziamento del patto, così come l’abbassamento del costo del lavoro di tre euro l’ora per ogni lavoratore.
Il 17 febbraio scorso, dopo due settimane di blocco totale delle merci ed il primo colloquio tra l’azienda e l’ex ministro del lavoro Flavio Zanonato, Electrolux ha proposto un piano triennale con un maxi investimento da 32 milioni di euro per adeguarsi a quelli già previsti per le altre fabbriche di Solaro (40 milioni in 4 anni), Forlì (28 milioni) e Susegana (22,8 milioni). Poi il cambio al vertice di Palazzo Chigi, Matteo Renzi che subentra a Enrico Letta e la trattativa che si arena.
Allo stato dell’opera si parla di un esubero di 316 lavoratori per Porcia: 298 operai e 18 impiegati d’ufficio. Se non ci saranno sorprese perderanno comunque il loro posto entro il 2017. L’attuale negoziazione cerca di rendere meno traumatico il loro distacco dall’azienda. Dalla sede operativa della multinazionale in Corso Lino Zanussi, continuano a recitare il mantra: «Si può anche sopportare il costo dell’Energia più alto d’Europa, ma non gli alti livelli tassazione per ogni singolo lavoratore». La stessa Fiom con Marcon ribadisce il concetto: «È un paradosso che in questo Paese ci sia la retribuzione lorda più alta d’Europa e la netta più bassa. Oltre il salario, l’azienda paga il 32 percento di tasse per ogni impiegato».
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L’Italia è il Paese europeo più importante per l’Electrolux: con i suoi 6.185 lavoratori rappresenta quasi il 25 percento dei 25mila addetti impiegati dal colosso industriale nel continente. Porcia è l’avamposto nazionale più vitale, nel piccolo centro abitato lavorano 2.122 persone delle quali 1.160 sono operai addetti alla produzione delle lavatrici d’alta gamma. Se ne producono 94 in un’ora, una ogni 38.25 secondi. «È un’eccellenza della meccanica», continuano a ripetere a voce alta gli operai. Per darsi forza, per sentirsi vicini mentre si preparano a pranzare insieme.
C’è una bombola del gas vicino alla tenda degli scioperanti, pentolame vario di alluminio sbeccato e chili di pasta. Tra un piatto caldo e un bicchiere di vino locale le parole che si bisbigliano sono varie, ma una più di tutte: Polonia. A Olawa, nella Bassa Slesia, ci sono le fabbriche del basso di gamma. Quelle che producono le lavatrici economiche. Il timore ventilato è che in pochi anni si prenderanno anche i gioielli con carica dall’alto che rappresentano l’emblema di una specializzazione tutta italiana. «C’è stata già una politica di duplicazione delle fabbriche italiane oltre frontiera. A parte l’alto di gamma, le quattro fabbriche polacche producono gli stessi elettrodomestici di Porcia, Forlì, Susegana e Solaro. È vero, in Polonia un operaio costa sei euro all’azienda mentre qui in Italia ci aggiriamo sui 25 euro all’ora. Ma ci sono da dire tre cose: la prima è che in Polonia, come anche in Serbia, lo Stato ha introdotto alti incentivi per l’assunzione di mano d’opera; la seconda è che in Polonia la tassazione per le aziende è all’8 percento, mentre in Italia sfiora il 35; la terza è che l’operaio polacco mette in tasca tre euro l’ora, che non ha coperture sanitarie o altri diritti legati a un sistema di Welfare. Le imprese lì lavorano sulle spalle del lavoratore», dice Marcon.
Il sistema Italia non funziona più, secondo Gianni Piccinin della Fim Pordenone che si chiede «perché l’imprenditore dovrebbe continuare a stare qui? Se va via ha maggiori possibilità di guadagni. Non c’è via di scampo. L’Italia è un popolo di artigiani. Non abbiamo risorse naturali come il gas o il petrolio. Non sappiamo fare altro e non possiamo vivere solamente grazie agli aiuti di Stato. C’è bisogno che il governo riprenda questo argomento». Come ha fatto quello francese che, ricorda Zaami, «grazie a una legislazione seria, ha costretto l’Electrolux a riqualificare lo stabilimento di Reims invece di chiuderlo. Hanno iniziato a produrre i motori che prima si costruivano nella storica sede della Nidec Sole Motor Corporation, un colosso che fino a quel momento controllava il 60 percento del mercato dei motori di raffreddamento e che ha sede a 300 metri da qui».
Il famoso indotto. Le aziende e i punti vendita legati a doppio filo all’attività della casa madre impiegherebbero circa quattromila persone nella provincia di Pordenone. «Ecco perché è necessaria una contrattazione seria», dice il governatore del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, durante un’intervista nel palazzo del Consiglio regionale di Trieste. Per lei il piano da 32 milioni «è un importante punto di partenza. Attualmente abbiamo troppe tasse e il costo dell’energia più alta d’Europa. È molto difficile essere attrattivi per gli investimenti stranieri. Pensiamo che sia importante che lo Stato proceda con la decontribuzione dei contratti di solidarietà».
La posizione della presidente è molto simile, quasi convergente, a quella delle parti sociali che non chiedono solo finanziamenti, ma una soluzione duratura per il futuro. A chi le fa notare l’inedita luna di miele, risponde che «è vero, ma è giusto restare coesi. In fondo siamo stati fortunati se si pensa che è la prima volta che un’azienda avvisa in anticipo prima di chiudere i battenti».
Il riferimento è a un’altra vertenza storica, quella della Fiat di Torino e all’enorme flusso di denaro pubblico stanziato per il suo salvataggio. «I soldi dei contribuenti non devono servire a finanziare aziende private, è necessario detassare il lavoro e non rendere queste crisi un peso per tutti i cittadini». La altre formule proposte per uscire dallo stallo finanziario sono quelle dell’ala renziana del Pd: «Abbattere l’Irap, incrementare la pressione fiscale sulle transazioni finanziarie e attuare il piano Cottarelli di spending review che permetterà di tagliare tre miliardi subito, dieci entro l’anno e 32 entro il prossimo triennio. È un programma già pronto, ma abbiamo bisogno di altre riforme, come quella dell’abolizione del Senato, che sarebbe ottima. È arrivato il tempo in cui se qualcuno ha di più di altri, deve dare di più».
Alla domanda diretta sulla sua fede renziana, sorride, ammette e chiosa: «C’è una consapevolezza nuova dopo sei anni di stagnazione. C’è bisogno di una cultura del cambiamento e questa crisi è un’opportunità per crearla. La nostra è una sfida generazionale, non una corsa al potere. Credo che Renzi sia la persona giusta ora. Sicuramente quella che ha più coraggio. Il tempo del cambiamento è adesso, se non dovesse riuscirci si rischia di prendere la deriva del grillismo o addirittura veder tornare Berlusconi».
C’è un rischio più grande per Gabriele Santarossa, operaio della linea di montaggio. Cinquantadue primavere, lavora in Electrolux dal 1986, due anni dopo l’acquisto della Zanussi. Racconta che «prima della crisi guadagnavo un netto di 1.350 euro, ora con il contratto di solidarietà ne porto a casa 1.200. Se le nostre paghe si abbasseranno, come dicono, a 800 euro, sarà difficile anche fare la spesa». Spende 600 euro di affitto per un bilocale che divide con la compagna francese, anche lei impiegata a Porcia. Mentre beve un caffè sotto la tenda di cellophane, ripercorre i suoi anni in fabbrica. È un racconto misurato, quasi come se parlasse di un parente o un amico. «Era così, l’azienda è stata sempre nostra amica, finché non ha deciso di mandarci questo avviso e iniziare fare apparire questa fabbrica come il suo problema più grosso». Ha una figlia di vent’anni e quando gli si chiede se è disposto a lasciare il Paese, risponde: «Non ho ancora pensato a questa possibilità. Nella peggiore delle ipotesi ho tre anni di tempo, fino al 2017, per capire quale sarà il mio futuro. Si spera che passi la crisi. L’idea di andarmene dall’Italia non l’ho neanche presa in considerazione».
Fatto sta che c’è tempo fino ad aprile per sciogliere le riserve. Tra meno di un mese, dicono i sindacati, Electrolux concluderà la nuova indagine attualmente in corso e presenterà le scelte definitive ai propri lavoratori. È quello il termine che l’azienda ha dato alle istituzioni per trovare una soluzione al caso. Intanto smentisce due voci importanti: la riduzione dei salari al 50 percento e l’introduzione delle sei ore strutturali. «Sono pura fantasia – dice una fonte interna – la legge non ce lo permette e noi non abbiamo intenzione di farlo».
Dall’altra parte del tavolo siedono Giuliano Poletti, ministro del Lavoro, e Federica Guidi, titolare dello Sviluppo economico. Su di lei le opinioni sono varie e opposte: c’è chi pensa che sia solo un falco di Confindustria, insensibile ai diritti degli operai e da sempre ostile all’articolo 18. Altri, invece, credono che chi come lei ha alle spalle una famiglia di imprenditori, possa capire meglio di tutti le logiche dell’azienda e dei lavoratori. Tra pochi giorni la prova finale, che qui aspettano tutti: Electrolux, che continua a vantare di aver investito 250 milioni di euro l’anno in Italia; i sindacati, che puntano a una soluzione indolore per le oltre mille famiglie in attesa del verdetto; infine gli stessi operai, per i quali la lotta è una e trina. Si difende il passato e il nome storico della Zanussi, si difende il presente e il lavoro, si difende il futuro della comunità stretta intorno alla fabbrica di Porcia.