Nella Valle del Sacco, cuore del Lazio, un caso che ricorda la Terra dei fuochi e l’Ilva di Taranto
testo di Carlo Ruggiero, foto di Matteo Di Giovanni
Questo è un viaggio sul fiume Sacco, uno dei fiumi più inquinati d’Italia. Cinque tappe lungo un corso d’acqua di 80 chilometri che bagna le ferite della gente che si ammala. E muore ogni giorno. Queste sono le voci di chi vive in questo territorio, tra fabbriche chimiche, immondezzai e fattorie. Questa è l’ennesima storia di una terra violentata e abbandonata, dopo esser stata adescata con un sogno effimero di ricchezza. A pochi chilometri da Roma, un caso che ricorda molto da vicino sia quello della Terra dei fuochi sia quello dell’Ilva di Taranto, ma che fa molto meno rumore. Il reportage prende spunto da Cattive acque. Storie dalla valle del Sacco, Round Robin editrice, un libro di Carlo Ruggiero in libreria dal 28 febbraio.
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TAPPA 1 – BETAESACLOROCICLOESANO
La storia di Luigi, per vent’anni operaio Snia-Bpd. E del lindano, il diserbante che ha tolto il velo sul disastro ambientale della Valle del Sacco
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di Carlo Ruggiero
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15 marzo 2014 – «C’hanno già giocato con la mia pelle, ora non ci faccio giocare più nessuno. Nessuno». E scandisce le parole, alzando di colpo il tono della voce. «Questa è una cosa seria: ci stanno i morti, ci sta la gente che si ammala. Pure tu, se mangi qualcosa che viene prodotto da queste parti, ce l’hai pure tu. Ce l’hai addosso». E ti guarda dritto in faccia, fisso. Come se volesse scavarti dentro, come se volesse essere sicuro che riesci a capire per davvero quello che sta dicendo.
Luigi Mattei ha un naso largo e butterato, un naso che parla. E che racconta anni di fatica, di lavoro e di sofferenza. Gli divide la faccia esattamente a metà, quel naso, come una grossa patata. I suoi occhi sono inquieti, e pure un po’ liquidi. Gialli. Di un giallo che sa di malattia. Lo stesso colore che segna la pelle della sua faccia graffiata da rughe profonde. Siamo a Colleferro, all’inizio della Valle del Sacco. Proprio da qui è partito il disastro ecologico di questo territorio, almeno uno di quelli su cui si hanno notizie certe.
«M’hanno detto che non lo posso dire, ma io lo dico lo stesso: qua ci sta un’epidemia. Tutta Colleferro è contaminata». E tira fuori altre carte bollate dai faldoni, con quelle sue mani grandi e nodose da operaio. Sì, perché Luigi è stato un operaio per una vita. Dal 1962 al 1981 ha lavorato alla Bombrini Parodi Delfino, al reparto manutenzioni. Era lì quando si è fusa con la Snia e anche quando è stata acquisita dalla Fiat Ferroviaria.
«Io prendevo i fusti col muletto e li mettevo sui carrelli, – racconta – facevamo una specie di trenino, pieno zeppo di fusti. Dentro i fusti ci stavano i rifiuti che dovevamo portare vicino al fiume, nel ‘Campo recuperi’». Gesticola. Non riesce a stare fermo, mentre gli occhi gialli s’inumidiscono di lacrime di rabbia. «I fusti erano quelli dei materiali chimici che servivano per la produzione, li riutilizzavamo per metterci quella robaccia. Erano tutti arrugginiti, mezzi aperti, nemmeno saldati. Li chiudevamo giusto con un po’ di resina. Poi però, quando li buttavi nel campo, gli schizzi arrivavano alle stelle».
In quei fusti c’era di tutto: amianto, piombo, rame, zinco, resine, trucioli di ferro e ottone, ecc. «E lindano, il betaesaclorocicloesano…». Luigi a volte incespica nelle parole. Però quella, la più difficile, la scandisce senza esitazioni.
Chissà quante volte deve averla sentita, chissà quante volte deve averla ripetuta. Perché lui quella molecola, il betaesaclorocicloesano, per gli amici Beta Hch, ce l’ha nel sangue. Così come molti altri abitanti della Valle del Sacco. Così come quelli che lavoravano con lui allo stabilimento, «tutti morti, non se n’è salvato manco uno».
Il betaesaclorocicloesano è uno scarto del lindano, un principio attivo che serve a fare i diserbanti. L’Organizzazione mondiale della sanità oggi lo classifica come “mediamente pericoloso” e il suo commercio è limitato in nome di una convenzione internazionale. L’impiego industriale è attualmente vietato in più di 50 Paesi, e tra questi c’è anche l’Italia. È stato anche incluso nella lista degli “inquinanti organici persistenti”, cioè ne sono stati banditi la produzione e l’utilizzo nel mondo intero.
Quando Luigi lavorava alla Snia-Bpd, però, di tutto questo non sapeva niente. Nel frattempo il Sacco ogni tanto esondava, copriva la discarica, poi tornava nel suo letto. «L’acqua era gialla quando ci lavoravo io», dice, e tu hai più di una difficoltà a stare dietro a quei suoi occhi nervosi, anche quelli liquidi e gialli. Luigi è un testimone chiave, oltre che parte offesa, nel secondo procedimento sulla vicenda lindano, quello contro le quattro persone cui si attribuisce il disastro ambientale.
Nella prima udienza dibattimentale, alla fine del novembre 2012, il tribunale di Velletri ha deciso di restituire i fascicoli alla procura, per un errore di notifica. Poi il 4 febbraio scorso il processo è ripartito, ma il rischio che finisca in prescrizione è ancora concreto.
Nel frattempo, però Luigi ha portato a casa la vittoria più grande. Stavolta non ha a che fare con il lindano, ma con l’amianto. «C’ho messo sedici anni, ma questa è la Bibbia», dice colmo d’orgoglio, mentre ti sventola sotto il naso la sentenza della Cassazione che gli riconosce lo status di esposto alle polveri di amianto per cause professionali. «È la Bibbia», ripete. Il prossimo obiettivo è ottenere lo stesso risultato per quanto riguarda il Lindano. È la battaglia a cui tiene di più. «Io ce l’ho dentro, ce l’ho nel sangue. Sono malato, la notte dormo con il respiratore».
Secondo gli studi, il Beta Hch è una tossina che interferisce con le funzioni di neurotrasmissione. Sicuramente, nell’uomo, attacca principalmente il sistema nervoso, il fegato e i reni e con ogni probabilità è anche un agente cancerogeno e perturbatore endocrinale. I suoi effetti, però, non sono ancora del tutto chiari. Finora, non era mai successo che il lindano contaminasse così tante persone. Forse la metafora più efficace per spiegare le conseguenze del Beta Hch sugli uomini, è quella utilizzata da un dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità durante un incontro pubblico. «Probabilmente – disse – il Beta Hch non produce di per sé patologie, ma crea un ‘effetto zavorra’. Un peso che affatica l’organismo e che può essere indirettamente patogeno».
Per questo non è ancora chiaro se l’esposizione al lidano può essere equiparata a quella all’amianto. Per questo i giudici prendono tempo.
Quali che saranno i risultati futuri degli studi effettuati su questa gente, però, già oggi è piuttosto difficile non pensare alla malattia e alla morte guardando gli occhi gialli e sgranati e il naso butterato di Luigi, mentre ti stringe forte la mano e ti dice speranzoso: «Lo devono sapere tutti quello che è successo qua. Tutti lo devono sapere». Così come è difficile non pensare alla malattia e alla morte dopo, quando ripassi sotto il cementificio, il vero simbolo di Colleferro, vedi in lontananza l’inceneritore, attraversi una selva di capannoni in lamiera e di stabilimenti industriali. E quando attraversi il ponte di cemento grigio che ti porta sull’altra sponda del fiume Sacco.
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