[note color=”000000″]Nella sezione “Storia e memoria”, Q Code racconta “storie nella storia”: storie di vita che incrociano, in uno o più momenti, la Storia con la S maiuscola. Parliamo anche di memoria, intesa come memoria storica, collettiva, personale, memoria costruita o decostruita, per indagare le diverse sfumature di un processo che è tutto tranne che neutro.[/note]
Settant’anni fa, nelle borgate di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero, sull’Appennino modenese, nazisti e fascisti uccidono oltre centotrenta persone. Un sito e un parco conservano la memoria di quella strage
di Giulia Bondi
(immagini tratte dal sito Parco Santa Giulia)
19 marzo 2014. “La popolazione è rimasta inebetita dalla terrificante distruzione”, scrive il commissario prefettizio di Montefiorino in una relazione del marzo 1944. Si riferisce alla strage di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero, che pochi giorni prima, il 18 marzo 1944, ha fatto oltre centotrenta vittime civili in quattro borgate dell’Appennino tosco emiliano, al confine tra Modena e Reggio Emilia.
«Davanti alla casa c’è mia zia che stava per partorire, era all’ottavo mese. Ha la pancia squarciata da una raffica di mitra. I suoi tre figli, di quattro, cinque e sette anni, sono vicini a lei, con la testa quasi tagliata in due, forse dalla stessa raffica che ha ucciso lei», ricorda Adriana Gualmini.
«Hanno ucciso papà, hanno ucciso papà». L’urlo della mamma, la sua corsa veloce e inutile, il tedesco che le punta il mitra per farla andare via. «Anche io giro l’angolo, papà è a terra, c’è solo lui a terra. Altri uomini sono in piedi, davanti ai fucili. Scappo». Il racconto è di Marina Venturelli.
«Quando cade gli vado vicino. La testa è nel sangue, in una pozza che si allarga… Papà guarda il cielo. Gli tocco le mani, sfioro il viso. Non si muove… Il foro è lì, grande, in mezzo alla fronte», dice Armando Tincani.
Le testimonianze (di chi all’epoca era un bambino) sono raccolte sul sito “Valle della Memoria”, nato a settant’anni esatti dalla strage nazifascista di Monchio, Susano, Costrignano e Savoniero. Le borgate sorgono nella zona di Monte Santa Giulia, oggi Parco della Resistenza, che agli inizi del 1944 è uno dei punti di maggiore presenza partigiana nell’Appennino modenese e reggiano.
Dal punto di vista di nazisti e fascisti, Monchio e dintorni sono un laboratorio che anticipa di qualche mese la stagione della “guerra ai civili” lungo la Linea Gotica: centinaia di massacri efferati contro popolazioni civili. L’unica colpa delle vittime è la solidarietà: aiuto ai soldati sbandati o a quei giovani renitenti alla leva che di lì a poco sarebbero diventati “i ribelli della montagna”.
Molte stragi non sono rappresaglie contro azioni partigiane. Derivano da una precisa strategia di controguerriglia, teorizzata dal generale Albert Kesselring e già sperimentata sul fronte orientale: fare terra bruciata intorno alla Resistenza colpendo gli inermi.
La strage di Monchio, seconda in Emilia-Romagna per numero di vittime (la più grave è Monte Sole, 955 morti in pochi giorni, dal 29 settembre 1944 ai primi di ottobre), è anche una delle meno conosciute. Anch’essa finisce nei fascicoli dell’”Armadio della vergogna”, procedimenti “provvisoriamente archiviati” dalla Procura militare di Roma negli anni Sessanta e riscoperti oltre trent’anni dopo. L’Emilia-Romagna conta da sola un terzo del totale delle vittime italiane, con 500 tra stragi ed eccidi (molti compiuti direttamente da fascisti) e 4.500 vittime tra civili e partigiani.
Nell’Appennino, tra gennaio e febbraio, ci sono già rastrellamenti, alla ricerca di giovani renitenti alla leva. Il 16 febbraio sono arrestati i parroci di Savoniero e Monchio e il 28 dello stesso mese 150 abitanti di Monchio vengono portati nel campo di Fossoli, da dove saranno liberati nei giorni successivi alla strage.
L’8 marzo, con lo scadere dell’ennesimo bando di arruolamento nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, iniziano nuovi rastrellamenti. Mentre in altre zone dell’Appennino le formazioni partigiane hanno la peggio, a Montefiorino e Monte Santa Giulia sono fascisti e tedeschi a essere sconfitti. L’8 marzo due giovani sono uccisi a Palagano. Il 9 i partigiani attaccano i militi della Guardia nazionale repubblicana del paese, poi intercettano un altro reparto, uccidendo 7 militari e un civile da loro catturato. Il 16 marzo, un nuovo rastrellamento investe la zona di Monte Santa Giulia, ma fascisti e tedeschi escono sconfitti. Dopo questi combattimenti, le formazioni partigiane si spostano in zone più sicure, mentre i comandi tedeschi decidono una durissima vendetta contro i civili.
Il 17 marzo arrivano da Modena e Bologna due compagnie del reparto corazzato esplorante della divisione Hermann Göring. Sono 200 uomini, più altri 300 tra gendarmeria tedesca, Guardia nazionale repubblicana ed esercito fascista. A Montefiorino arriva una batteria contraerea tedesca da 88 mm. Alle prime luci dell’alba del 18 marzo inizia il cannoneggiamento. Gli abitanti, terrorizzati, abbandonano le case più esposte e cercano riparo, ma molti non si allontanano dalla casa o dalla stalla. Alle 7 le truppe partono da Savoniero per raggiungere i luoghi da rastrellare. Appena arrivati a Susano, segnalano all’artiglieria di sospendere il cannoneggiamento. È l’avvio del massacro.
Alcuni civili sono costretti a trasportare fino a Monchio cibo e bestiame razziati dalle case. All’arrivo, saranno uccisi assieme agli altri. Nella famiglia Gualmini le vittime sono otto, compresi tre bambini di quattro, cinque e sette anni. A Buca di Susano tre bambini di tre, otto e dieci anni sono assassinati insieme ad altrettanti adulti. Otto sono i morti della famiglia Rioli, sette della famiglia Abbati, sei della famiglia Guglielmini. Una giovane donna, Delia Marastoni, è massacrata insieme ai figli, Ursilia di dieci anni e Orfeo di sette, più il piccolo Carlo, un orfanello di tre anni a lei affidato.
Duecento case sono incendiate e distrutte, altre irrimediabilmente danneggiate. Due giorni dopo il commissario prefettizio di Montefiorino, Francesco Bocchi, uno dei responsabili della chiamata dei tedeschi, visita la zona e invia una relazione al Capo della provincia in cui scrive:
“Le popolazioni colpite si presentano in un quadro della più completa impressionante desolazione. Le case distrutte sono ridotte nella più grande maggioranza in un cumulo di macerie sotto le quali è rimasto bruciato tutto il mobilio, scorte di viveri, masserizie, risparmi in contanti, attrezzi agricoli, bestiame bovino (…) I cadaveri verranno sepolti in fosse comuni per insufficienza di area disponibile nei cimiteri”.
A sera si contano 129 morti: 71 a Monchio, 34 a Costrignano e 24 a Susano. Contando anche sette civili uccisi prima e dopo la strage, il totale arriva a 136 morti. Tra questi, sei sono bambini di età inferiore ai dieci anni, sette ragazzi tra i dieci e i sedici anni, sette donne di cui una all’ultimo mese di gravidanza, venti anziani ultra sessantenni, incluso uno semi paralizzato. Due giorni dopo, gli stessi reparti assassineranno a Cervarolo, nell’alto Appennino reggiano, 24 abitanti del borgo tra i quali il parroco.
La sproporzione tra causa scatenante ed esito provoca discussioni nei comandi tedeschi; il responsabile dell’azione è inviato sul fronte orientale, dove morirà. Da parte fascista, invece, si sostiene l’utilità della repressione, negando di avere colpito civili, sebbene tra le vittime della strage ci siano tre iscritti al partito fascista repubblicano e due maestri.
Il commissario prefettizio Bocchi – da molti ritenuto responsabile di quanto successo – si trasferisce a Modena diventando vice reggente della federazione fascista: il 18 marzo 1945, a un anno esatto dalla strage, muore per mano dei partigiani.
Il giornale “La Gazzetta dell’Emilia” del 22 marzo 1944 titola: “Una riuscita azione di rastrellamento contro il banditismo sull’Appennino modenese”. Parla di “valoroso comportamento delle forze armate italiane e tedesche” e di “oltre 300 caduti” tra “i banditi, colti di sorpresa nei loro nascondigli”:
“L’operazione di rastrellamento in grande stile, compiuta dalle forze tedesche in unione alle forze armate italiane sulla nostra montagna contro comuni delinquenti che si atteggiano a ribelli, speriamo che valga a dare una lezione ai superstiti che si ostinano ancora a condurre una lotta fratricida nella loro stessa terra (…). Le popolazioni laboriose della montagna sono stanche di essere fatte segno agli attacchi terroristici, alle rapine di codesti servi del capitalismo anglo-americano…”
All’articolo, il Comitato di Liberazione Nazionale risponde con un volantino, diffuso la notte tra l’1 e il 2 aprile. Sarà anche la rabbia per la strage dei civili a inasprire la lotta e le azioni dei “ribelli della montagna” che il 18 giugno 1944 daranno vita alla zona libera nota con il nome di “Repubblica di Montefiorino”.
“Operai, contadini, intellettuali di Modena e provincia! – recita il volantino del Cln – Non siamo noi i responsabili della guerra civile. Sono i fascisti che l’hanno voluta scatenare nel tentativo pazzo, criminale e disperato di evitare la fine che meritano. Ed essi sono tanto vili da mandare spesso a combattere contro i Patrioti dei giovani che sono anima della nostra anima, sangue del nostro sangue. Sono tanto impotenti da sollecitare l’aiuto dei tedeschi, i quali, non essendo riusciti ad avere ragione dei Patrioti, col cannone e col fuoco hanno distrutto alcuni villaggi della zona di Montefiorino, seminando freddamente la strage fra quelle inermi popolazioni.”
Dopo la strage per oltre un anno si continua a combattere intorno a Monte Santa Giulia. Nel dopoguerra, si esalta soprattutto l’esperienza della Repubblica partigiana di Montefiorino, mentre la memoria della strage rimane per anni confinata in ambito locale.
Nel 2008, due registi della zona, Sabrina Guigli e Riccardo Stefani, dedicano un lungometraggio agli eccidi del marzo 1944 e alla vita delle comunità montane durante la guerra. Per il cast di Sopra le nuvole scelgono quasi interamente attori non professionisti reclutati nelle zone degli eccidi. I nipoti si trovano a vestire i panni dei nonni.
Negli ultimi anni, il comune di Palagano celebra, oltre alla memoria della strage, la ricorrenza della sentenza di primo grado del Tribunale di Verona, che il 5 luglio 2011, accogliendo le richieste dei pubblici ministeri Luca Sergio e Bruno Bruni, condanna all’ergastolo tre ufficiali, di 91, 93 e 86 anni. Solo una delle tre condanne è confermata in appello dal Tribunale militare di Roma.
Nel 2012, il documentario Il violino di Cervarolo, realizzato con la collaborazione dei parenti delle vittime, ripercorre le vicende della strage a partire da uno strumento musicale appartenuto a Virgilio Rovali, musicista del paese. Rovali, poco prima di partire soldato, lascia alla madre il violino. Lo strumento si salva dall’incendio che distrugge il paese e viene ritrovato intatto.
Aggiornamento: Il 20 marzo 2014, la Corte di Cassazione si è pronunciata confermando gli ergastoli comminati in primo grado e accogliendo le richieste del Procuratore Generale di annullare le quattro assoluzioni che erano state concesse in Appello.