Uno stilista, in bici, in un viaggio fino alle origini dello sfruttamento, per ridare alla moda un’eticità e un fine di condivisione artistica
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/io.jpg[/author_image] [author_info]di Alessandro Di Rienzo. Concepito a Roma in un incontro occasionale il 21 aprile del 1978 è nato a Napoli il penultimo giorno dello stesso anno in quanto la madre aveva letto un noto libro di Oriana Fallaci. Questo lo ha appreso nel novembre del 2002 mentre contestava proprio la Fallaci a Firenze in occasione dell’Europa Social Forum. Da allora ha sviluppato una irrimediabile attrazione verso le contraddizioni. Caratteristica questa che lo ha portato, con penna o telecamera, a interessarsi di Medio Oriente e vertenze sindacali.[/author_info] [/author]
20 marzo 2014 – Da una parte l’irrinunciabile passione per la moda, il desiderio di vivere di questa forma di arte così incline alla riproducibilità nell’era della produzione di massa. Dall’altra parte, un’indole altromondialista che stride con la propria passione.
Di fronte a sé quella zona grigia composta da tutta la popolazione occidentale, inevitabilmente complice dello sfruttamento, dell’inquinamento e del dumping sociale anche quando compra un solo cappotto perché viene l’inverno.
Theo Rodriguez, emergente stilista 34enne, passaporto brasiliano ma indole di apolide, ha deciso di dare una soluzione creativa alla propria contraddizione. Così il 22 marzo prenderà la sua bicicletta e punterà il manubrio prima verso le capitali europee, in particolare Berlino e Varsavia, per un giro di ricognizione tra gli snodi produttivi del vecchio continente; poi verso Tokyo, passando per Grecia, Turchia, Iran, Afghanistan, Pakistan, India, Buhtan, Bangladesh, Myanmar, Cina e Corea del Sud.
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Due telecamere, da lui eterodirette, racconteranno il viaggio fatto di sicure gioie e altrettante tristezze. Un travaglio fisico e interiore che metterà in relazione Theo con chi produce stoffe per il grande e piccolo mercato e che finalmente farà vedere le mani, e i volti, di chi produce gli indumenti che compriamo nella distribuzione di massa. A Roma, ogni settimana, il gruppo di Altera Studio monterà il girato per un rendiconto settimanale che si potrà seguire su un sito internet in via di definizione oltre che su applicazioni fatte ad hoc per gli smartphone.
Al momento, il collettivo che produce questo interessante azzardo è in trattativa con alcuni portali web oltre che con un canale della piattaforma Sky, per una copertura che coinvolga media maggiormente collaudati. La diffusione sui social sarà il probabile volano per un progetto esistenziale e narrativo che mette insieme web-documentary e reality. Una narrazione multimediale che intende mettere in connessione il cliente con l’artista e il fornitore per farlo sentire partecipe, critico e consapevole, al processo di produzione. Marxianamente il valore dell’oggetto prodotto e venduto lo si stabilirà insieme.
Theo, cosa ti piace della moda?
«La moda, quando è rivoluzionaria, ha un suo valore perché permette di avere una maggior libertà nel modo di vestirsi quindi di essere. Per essere tale deve seguire un sentimento, un desiderio di maggior libertà che già c’è nell’aria. La moda costruisce un carattere visivo ad una ribellione già in atto all’interno dell’individuo e della società. Faccio l’esempio di Coco Chanel: lo stile che lei lanciò era una risposta alla ribellione latente delle donne della sua epoca, stufe di comprimersi in quei corpetti strettissimi ed in quelle gonne che le toglievano la forma del corpo, ma sopratutto una risposta alla loro voglia di ribellarsi all’autorità dell’uomo. Quella era una forma di moda dalla quale posso dire di essere d’accordo e che mi piace, oggi il marchio Coco Chanel non parla più a noi ma solo ai suoi azionisti. Oggi la moda è fine a se stessa, è diventata una industria per far soldi, si fanno cose di una bellezza straordinaria ma rappresentative di niente, come una principessa dalla bellezza struggente chiusa a chiave nella sua torre. Quando vediamo un capo d’abbigliamento di alta moda, ci dovremmo prima di tutto chiedere perché lo hanno prodotto, qual è il fine, a chi porta benefici, perché costa così, cosa fanno con il guadagno, chi lo ha cucito, dove vive, come vive, comprando questo capo quale azienda azienda sosteniamo, cosa fa di buono questa azienda, chi è il suo responsabile, come vive, cosa pensa, sono d’accordo con i suoi principi? Ormai non è più tempo di giudicare un’opera d’arte solo dalla sua bellezza, che è comunque relativa. Anche un abito va giudicato in base a quale contributo dà all’epoca in cui esso è realizzato. Questa è moda, per come la vedo io e per come l’ho inserita nel contesto in cui vivo. Io intendo la moda come un’arma in più per combattere una realtà sempre più opprimente».
È a tuo avviso ribaltabile il paradigma che vuole lo stilista milanese o parigino in Europa impegnato sulla carta con pochi fidati sarti, mentre il centro reale di produzione è delocalizzato tra Cina, India e Bangladesh per poi rivendere i capi nelle boutique occidentali?
«La questione non è se questo paradigma sia ribaltabile o meno. Certo, tutto il comparto può e deve essere più trasparente. Oggi con la facilità con cui si possono far girare le informazioni non ci sono più scuse per chiudere gli occhi. Si deve pretendere un rapporto di tipo sociale tra chi crea, chi produce e chi compra; non dico personale, sarebbe impossibile, ma io voglio sapere chi ha cucito l’abito che ho indosso e se si tratta di una persona sfruttata. Ho il diritto di sapere e quindi decidere se voglio comunque comprare quell’abito. Sarebbe facilissimo per le aziende fare questo, ma non lo fanno. Noi dobbiamo esigere che lo facciano, è un nostro dovere. Molte persone ed enti stanno chiedendo questo a gran voce. Io voglio essere una di queste voci attive. I grandi marchi devono rendere conto di quello che fanno come lo devono fare i governi. Poi che una grande azienda europea produca in Bangladesh, ad esempio, non è di per sé negativo. Può essere negativo come li produce, invece. L’azienda potrebbe tranquillamente portare dei benefici nel luogo in cui va a produrre se non fosse preoccupata solamente a massimizzare i profitti: stipendi più alti della media nazionale, maternità nel luogo di lavoro per le mamme lavoratrici, apertura di scuole, miglioramento delle infrastrutture abitative. Questo è compito dei governi di questi paesi ma le aziende che lì producono dovrebbero lavorare con essi per raggiungere tali obiettivi. Ma non vogliono, ovviamente, perché cosi facendo in futuro non converrebbe più produrre in questi paesi asiatici perché non ci sarebbe più la miseria da sfruttare. Viviamo in un’epoca in cui le multinazionali hanno più potere dei governi. In alcuni contesti assistiamo a manifestazioni di piazza non contro i governi ma contro le aziende. Perciò ho scelto la mia strada e faccio ciò che faccio: esigo trasparenza per poter scegliere».
P.s. Per chi è a Roma, sabato 22 marzo Theo Rodriguez parteciperà con una performance alla festa dei 9 anni di occupazione del Centro Sociale Sanspapiers per poi partire per il suo tour alle prime luci dell’alba.
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