Gran parte della letteratura in materia considera i cambiamenti climatici una sfida alla sicurezza umana, focalizzandosi sul loro impatto sulle risorse naturali, i territori e la biodiversità
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/ValeB.jpeg[/author_image] [author_info]di Valeria Barbi. Ricercatrice per lavoro, viaggiatrice per vocazione e scrittrice per passione. Si occupa di politiche climatiche e tutela dell’ambiente. Ha molte passioni. Una di queste è dare sempre e comunque la propria opinione. Anche quando non è richiesta. Tende a non farsi condizionare dalle regole ma a vivere le proprie emozioni. Ha deciso di restare in Italia (per ora) per vedere chi la spunta tra la sua instancabile forza di volontà e questo Paese immobile[/author_info] [/author]
21 marzo 2014 – A dimostrazione di come, negli ultimi anni, il binomio cambiamenti climatici-sicurezza internazionale abbia iniziato a essere percepito come un problema urgente anche tra i banchi della diplomazia, nel giugno del 2007 il Consiglio Europeo ha invitato Onu e Commissione Europea a presentare una relazione congiunta sui cambiamenti climatici e il loro impatto sulla sicurezza internazionale. L’obiettivo del report “Cambiamenti Climatici e Sicurezza Internazionale” era comprendere gli scenari, sul piano della sicurezza, che si aprirebbero a seguito di un aumento della temperatura di 2°C e vagliare quali fossero le misure preventive che devono essere adottate.
Secondo il documento, i cambiamenti climatici aumenterebbero instabilità e tensioni già presenti in alcune regioni rischiando di costituire un fattore decisivo per quegli Stati già esposti a conflitti e per le aree confinanti. Dunque, per gli stessi europei, i rischi non sarebbero solamente di carattere ambientale ed umanitario ma anche politici e di sicurezza.
Allo stato attuale, gli impatti dei cambiamenti climatici sono assimilati ad una serie di processi che sta contribuendo al fenomeno della “scarsità di risorse” portando ad una serie di scenari che includono, tra i vari esiti previsti, i conflitti violenti e le migrazioni di massa. Per citare un esempio, nel documento dell’UE sopra citato si legge che:
“La riduzione dei seminativi, la diffusa carenza idrica, la diminuzione delle scorte alimentari e ittiche, l’aumento delle alluvioni e le siccità prolungate si stanno già verificando in molte parti del mondo. I cambiamenti climatici modificheranno i regimi delle precipitazioni e ridurranno ulteriormente dal 20-30% la disponibilità di acqua dolce in talune regioni. Un calo nella produttività agricola porterà all’insicurezza alimentare, o la peggiorerà, nei paesi meno sviluppati ed ad un aumento insostenibile dei prezzi dei prodotti alimentari a tutti i livelli. La carenza idrica in particolare ha il potenziale per causare disordini civili e comportare perdite economiche rilevanti, anche nelle economie forti. Le conseguenze saranno ancora più considerevoli nelle aree sottoposte a forte pressione demografica. Come effetto globale, i cambiamenti climatici alimenteranno i conflitti esistenti per le risorse in esaurimento, specialmente ove l’accesso a tali risorse è politicizzato”.
E la situazione risulta ancora più complessa se si riflette sui nuovi dati resi disponibili dal primo volume del quinto rapporto di valutazione dei cambiamenti climatici (AR5) dell’Intergovernmental Panel for Climate Change (IPCC), pubblicato, nella sua versione non definitiva, il 30 settembre 2013. I dati analizzati dalla comunità scientifica internazionale, ed esposti nel rapporto, confermano che i cambiamenti climatici sono in atto e che il riscaldamento globale è inequivocabile. Inoltre, viene specificato chiaramente che è estremamente probabile (95-100%) che più della metà dell’aumento osservato nella temperatura superficiale dal 1850 al 1910 sia stato provocato da attività di origine antropica tra cui: emissioni di gas serra, aerosol e cambiamenti nell’uso del suolo (land use, land use change and forestry – LULUCF). In base ai quattro scenari presentati nel quinto rapporto, l’aumento delle temperature globali rispetto ai livelli preindustriali oscillerà tra i 2°C fino a superare i 5°C a fine secolo. Per mantenere il riscaldamento globale al di sotto della soglia di sicurezza fissata a 2°C, è necessario che le emissioni cumulative di CO2 rispetto ai livelli preindustriali provenienti da attività antropiche rimangano al di sotto dei 1000 GtC. Impresa ardua, a meno di un radicale taglio nell’utilizzo di combustibili fossili che sono responsabili, insieme all’industria del cemento, dell’immissione in atmosfera dell’89% delle emissioni. Senza contare il necessario blocco della deforestazione. Per farsi un’idea di come, in uno scenario di BAU, sia facile superare la soglia di sicurezza, basti pensare che è stato stimato che dal 1750 al 2011, le emissioni cumulative antropogeniche hanno raggiunto i 545 miliardi di tonnellate di carbonio (GtC) di cui 240 GtC si sono disperse in atmosfera, 155 GtC sono state assorbite dagli oceani causandone l’aumento dell’acidità, e 150 GtC dagli ecosistemi naturali.
Tra gli impatti più drammatici e pericolosi per la sicurezza dei territori, gli scienziati annoverano una serie di importanti cambiamenti che stanno già coinvolgendo le terre emerse. Il livello del mare, che nel periodo tra il 1990 e il 2010 è cresciuto di 0.19 m ed è destinato, probabilmente, a crescere fino a raggiungere, nel 2100, un range di innalzamento oscillante tra i 0.41m agli 0.97m a seconda dello scenario considerato. Quest’ultimo, unitamente all’arretramento dei litorali, provocherà la sommersione di vaste aree fino a coinvolgere interi paesi. Gli abitanti dell’arcipelago Carteret (Papua Nuova Guinea) sono diventati i primi rifugiati climatici e, secondo alcuni studi, entro il 2100 l’innalzamento del livello del mare sembra esser destinato a far scomparire i 33 atolli che compongono l’arcipelago di Kiribati, nell’Oceano Pacifico. Ed è proprio da qui che arriva la prima richiesta ufficiale di riconoscimento dello status di rifugiato climatico. Ad avanzarla è, infatti, un abitante di Kiribati, Ioane Teitiota, 37 anni, il quale nell’ottobre del 2013 ha chiesto lo status di rifugiato alla Nuova Zelanda proprio a causa del surriscaldamento climatico.
Un’ulteriore fronte di competizione riguarda, com’è ovvio, la corsa alle risorse energetiche, specialmente quelle che potrebbero rendersi disponibili con lo scioglimento dei ghiacci artici.
Allo stesso modo, la desertificazione potrebbe avviare un circolo vizioso di degrado, migrazione e conflitti per il territorio e le frontiere che minaccerebbero la stabilità politica di paesi e intere regioni.
Da quanto detto finora, è facilmente prevedibile un aumento delle controversie in materia di traffico transfrontaliero, delineamento dei confini terrestri e marittimi, e di ulteriori diritti territoriali.
Ad essere a rischio, poi, è l’equilibrio dei sistemi di dialogo multilaterale: non essere in grado di affrontare, o ignorare totalmente, la minaccia dei cambiamenti climatici, porterà una notevole pressione sulla governante internazionale. Come già traspare chiaramente nel corso delle annuali conferenze degli stati membri della Convenzione delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici, gli impatti dei cambiamenti climatici stanno già alimentando la politica del risentimento tra coloro che sono i principali responsabili dei cambiamenti climatici e coloro che ne sono più colpiti. L’ovvia conseguenza è la formazione di due schieramenti ben definiti: quello dei paesi industrializzati, che chiedono globali ed ingenti impegni di riduzione delle emissioni, e quello dei paesi in via di sviluppo che rivendicano il loro diritto a perseguire uno sfrenato processo di industrializzazione e chiedono di beneficiare di un flusso continuo di finanziamenti in virtù del meccanismo di loss and damages.
La frattura, considerata fino a qualche anno fa solo “potenziale”, non comporta soltanto una divisione nord-sud ma ha un’ulteriore dimensione sud-sud, dovuta all’aumento della quota cinese ed indiana delle emissioni globali.
La già oberata architettura della sicurezza internazionale è dunque posta sotto crescente pressione.
Da quanto detto fino ad ora, è facile capire perché i cambiamenti climatici debbano essere affrontati anche come una questione inerente la sicurezza globale: basti pensare alle contese nelle regioni di confine, alle migrazioni dovute agli sconvolgimenti ambientali (desertificazione crescente, innalzamento del livello del mare, eventi estremi sempre più frequenti e devastanti), alla vulnerabilità delle infrastrutture, alla mancanza di cibo, allo scoppio di emergenze sanitarie dovute agli impatti diretti e indiretti del clima sulla salute umana, ed ai già citati conflitti per il possesso di risorse naturali in esaurimento (scarsità d’acqua dovuta a variazioni nel regime delle precipitazioni, perdita di suolo e cali della produttività agricola).
In Medio Oriente è da anni aperto un contenzioso e vi sono spesso stati conflitti fra Siria, Libano, Israele, Giordania e Palestina per lo sfruttamento delle acque del fiume Giordano. Secondo Tom Friedman, editorialista del New York Times, la primavera araba sarebbe essa stessa il risultato di una serie di problematiche climatiche ed ambientali, prima ancora che socio-economiche. A confermare la sua tesi anche uno studio di Sarah Johnstone e Jeffrey Mazo dell’International Institute for Strategic Studies (IISS), i quali hanno affermato che i cambiamenti climatici hanno senza alcun dubbio giocato un ruolo di primo piano nella nascita dell’ondata di proteste che ha incendiato Medio Oriente e Nord Africa nel 2011. Per citare le parole degli autori del report “Global Warming and the Arab Spring” a proposito della connessione tra innalzamento dei prezzi del pane e siccità, “un fattore di primordine nell’esplosione delle rivolte è stata la crisi alimentare globale che, a sua volta, è dovuta a tutta una serie di eventi climatici estremi che hanno coinvolto varie regioni del pianeta nell’anno precedente”.
Ad intravedere una connessione tra gli effetti dei cambiamenti climatici e l’esplosione, o l’acuirsi, di conflitti in aree già sensibili del pianeta sono un numero sempre crescente di analisti e ricercatori. Un recente articolo apparso sulla rivista scientifica National Academy of Sciences, ha evidenziato come, nella sola Africa, entro il 2030 i conflitti armati aumenteranno di circa il 54 percento comportando un numero di vittime plausibilmente stimabile a 400.000. Per citare ulteriori cifre, il report spiega come, tra il 1981 e il 2002, ad un aumento di temperatura di 1°C è corrisposto un aumento del 39 percento nelle probabilità che scoppiasse una guerra civile. Un utile strumento di analisi delle corrispondenze tra variabilità climatica e conflitti in Africa, è fornito dalla mappa costruita dai ricercatori del progetto “Climate Change and African Political Stability” del Roberts S. Strauss Center dell’Università di Austin (Texas).
I cluster rossi indicano il numero di conflitti sociali nell’area (rivolte, scioperi violenti, scontri armati…), i cluster azzurri il numero di progetti che includono finanziamenti a scopo umanitario, mentre la differenza nella variazione del rosso indica il livello di resilienza del territorio.
A considerare sempre di più i cambiamenti climatici come un rischio crescente per la sicurezza globale sono anche gli stessi servizi di sicurezza statunitensi. Nell’ultimo numero del report quadriennale pubblicato e divulgato dal Pentagono si legge come, sia i capi dell’intelligence americana che i più alti gradi dei servizi militari, considerino il cambiamento climatico come una minaccia su più fronti. Tra le aree considerate ad alto rischio compaiono la regione Africana del Sahel, dove gli Stati Uniti sono già impegnati militarmente nella loro battaglia contro le milizie islamiche, l’Asia centrale e meridionale, soggetta a destabilizzazioni provocate dalla mancanza di risorse idriche e dalla conseguente competizione con alcune ex repubbliche sovietiche, e la già citata regione artica.
Da quanto detto fin d’ora, appare evidente come, di recente, un numero sempre più vasto di analisti, tra i quali J. D. Steinbruner, direttore del Center for International and Security Studies, e Mike Hulme, professore all’University of East Anglia, si stia concentrando sulla cosiddetta “messa in sicurezza” dei territori contro gli impatti del cambiamento climatico e la conseguente scarsità di risorse come potenziale causa di conflitti.
La nozione di “messa in sicurezza” presuppone che il cambiamento climatico venga visto e considerato come una minaccia per la sicurezza e questo risulta vero anche, e soprattutto, quando si parla di contesti urbani, sia in paesi industrializzati che in paesi in via di sviluppo. Potrebbe dunque rendersi necessario il coinvolgimento di nuovi attori sullo scacchiere della lotta ai cambiamenti climatici: tra questi, le forze armate. Tuttavia, in uno scenario globale già fortemente destabilizzato e precario, rimane da chiedersi cosa comporterà un’ulteriore militarizzazione di aree già a rischio e quali saranno le regioni che ne trarranno effettivamente vantaggio. Il pericolo, al momento, sembra quello di una nuova divisione in aree di influenza circoscritte in base agli interessi economici dei più forti e non dei paesi più esposti alle conseguenze dei cambiamenti climatici.
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