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Un po’ diario e un po’ reportage, il racconto realistico -pertanto mai serio- dell’esperienza di una filosofa che, nell’horror vacui fra un contratto precario scaduto e il miraggio di quello successivo, dà una mano in una stalla piena di pecore e di pensieri.[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/PA070043.jpg[/author_image] [author_info] Irene. Nel 1984 nasco a Savona, probabilmente per una svista balistica della cicogna: appena riesco rimedio all’errore spostandomi in montagna, con la scusa di un dottorato in antropologia alpina. Prima avevo avuto la faccia tosta di laurearmi in filosofia. A me è Wittgenstein che mi ha rovinata: oggi scrivo, faccio la guida naturalistica e mi arrangio. Mi piace tutto quello che faccio.[/author_info] [/author]
22 marzo 2014 – Il fatto che il pranzo sia di norma collocato fra la mattino e il pomeriggio e che le giornate in stalla siano intere fa sì che io abbia un’ottima scusa per accettare gli inviti. Mi aggiudico così una serie di fantastici pranzi in famiglia (era mesi che non mangiavo cucinato a mezzogiorno), dove mi godo in pieno il buon cibo e l’ottima compagnia. Un’azienda agricola a gestione famigliare vuol dire dover confrontarsi di continuo fra madri figli fratelli sorelle mariti e mogli sul lavoro che ciascuno porta avanti, vuol dire aver la garanzia di condividere tutto con dei buoni colleghi (almeno in questo caso!), ma anche fare i conti con continue ingerenze, occasionali lune storte e comprensibili stanchezze quotidiane.
Significa che il confine fra lavoro e vita privata è molto labile, vuol dire che perché tutto funzioni bisogna non solo che ciascuno faccia il suo, ma che tutti si vogliano anche un gran bene. Per fortuna, questo è il caso. Dal mondo esterno arrivano cronache scolastiche (dalla giovane, Pesci) e racconti di esperienze di studio e lavoro fuori sede (dalla grande, Toro). La prima è l’artista della casa (ma la creatività è di famiglia, anche nella stalla), la seconda una veterinaria specializzata in bovini. La distribuzione dei ruoli genitoriali è simile a quella di casa mia: alla mamma è toccato il ruolo sporco della Grande Rompipalle, tanto tenera dentro quanto intransigente nei modi, al papà il compito più simpatico del Grande Moderatore, un re Salomone domestico che modera le zuffe fra Arieti, Tori, Pesci e Leoni. Dai contributi di ciascuno prende forma il dibattito quotidiano sulle Piccole e Grandi Cose del Mondo, la Vita e Tutto il Resto che è il bello dello stare in famiglia, quando in famiglia si sta bene.
Ogni giorno arriva puntuale l’Universale Incipit dei Pranzi, con il botta e risposta mamma/prole in età scolare: «com’è andata?» «bene» «cos’avete fatto?» «niente» (stando agli studenti del globo “niente” è materia unica insegnata a tempo pieno). Piano piano, pranzo dopo pranzo, ti ambienti, ti senti accolto. Fino al momento che sancisce ufficialmente il “sentirsi a proprio agio a casa d’altri”: il momento in cui ti accorgi di sapere dove reperire le preziose componenti del “kit caffè” (moka-caffè-tazzine-cucchiaini-zucchero).
Rigidità funzionale
Un bancale è un bancale. Un bancale rotto è inutile.
Se non sei capace a riparare niente e se non sai intuirne gli utilizzi possibili, gli oggetti hanno una vita semplice e, soprattutto, breve. Leone invece sa riparare gli oggetti fino a metterli a riposo solo al termine di una lunga ed eclettica carriera. Da bancale a staccionata, recinto, asse, supporto, legna da bruciare per scaldarsi. Di fronte alla sua abilità e quasi onnipotenza con chiodi, pinze, tenaglie, mazzetta e cacciavite provo vergogna della personale tendenza a generare baby pensionati inanimati. La mia reazione al guasto della maggior parte delle cose è infatti piuttosto simile a: “S’è rotto. Noooooo. E ora? provo a ripararlo? 1) Sì: lo apro, smanetto un po’, mi arrendo e lo dimentico in un angolo; 2) Forse lo riparo, ma di sicuro non ora: nel dubbio lo metto lì in un angolo; 3) No, però mi dispiace buttarlo via e poi, si sa mai, magari un giorno, sua sponte, tornerà a funzionare quando squilleranno le trombe del Giorno del Giudizio delle Robe Rotte: nell’attesa, mettiamo tutto in un angolo. Per dire, a un terzo del processo di smontaggio, per me il trattore Deutz era paragonabile a un puzzle di 2000 tessere raffigurante la fotografia di un pozzo in una notte senza luna: impossibile da ricomporre salvo che con un lento e faticosissimo processo per tentativi ed errori (durata stimata: dai 3 ai 6 mesi).
La non capacità di scorgere la potenzialità degli oggetti al di là dello scopo principale per cui sono stati creati è imbarazzante (è quella che gli psicologi definiscono “rigidità funzionale”), ma per fortuna circoscritta: nelle cose che interessano, per esempio per la maggior gloria dell’animazione ambientale, saprei ricollocare in servizio qualsiasi cosa pur di costruire qualcos’altro che mi serve. Fuori dal proprio giardino, c’è tutto da imparare. Non a caso, come dicevano gli agenti Molder e Scully, the truth is out there.
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