[note color=”000000″]In questo blog si parlerà di confini che scorrono tra paesi, individui, generi, ideologie, in quello spazio che si trova a est di Milano e finisce prima di andare troppo lontano[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]
23 marzo 2014 – Era un po’ che non mi capitava di averci a che fare, ma prima lo facevo spesso, anche una volta al mese. Negli ultimi tempi sono aumentate le destinazioni coperte da voli low cost e io ho avuto la fortuna di condividere viaggi in auto nei miei ultimi viaggi verso est. Da circa due anni non faccio lunghi viaggi in autobus. Negli anni precedenti, invece, mi ero fatta le ossa e avevo accumulato un importante bagaglio di esperienze.
Come quando, in una serata di neve, un autobus che viaggiava sulla tratta Zurigo-Sarajevo fece finta di non vedermi e ripartì a tutto gas da un autogrill del nord milanese, nonostante avessimo concordato la fermata. C’erano dei poliziotti a prendere un caffè, la loro macchina era parcheggiata fuori, scoprii poi, e l’autobus non aveva la licenza per far salire passeggeri in Italia. Nonostante questo, nessuno, a parte me, si perse d’animo e mentre inveivo al telefono con l’autista, mi arrivò la proposta di viaggiare in furgone con un cugino che sarebbe passato circa sei ore dopo. Declinai, forse affrettatamente.
Un’altra volta mi capitò che la compagnia di autobus che gestiva la tratta Milano-Zagabria vendette più biglietti dei posti presenti sull’autobus. Tecnicamente overbooking, che si risolse, per me, in un viaggio compressa su metà sedile tra una smilza signora e una giovane prosperosa fino a Padova, dove i passeggeri in eccesso furono appaltati a un altro autobus per Zagabria in arrivo da Bologna. La smilza signora sosteneva che la classe dirigente croata avesse profittato della guerra per svendere il paese. La prosperosa giovane era la figlia di un militare che si era battuto per l’indipendenza del suo popolo. Fu una bella occasione per dibattere sulla domovinski rat (guerra patriottica) in Croazia.
Ancora una volta, da Belgrado, uno degli ultimi viaggi, erano appena stati annullati i visti per i cittadini serbi nell’area Schengen. Alla frontiera slovena, dove era sera e dalla radio veniva una vecchia canzone italiana, fu chiesto alla famiglia rom che viaggiava sull’autobus di dimostrare i mezzi finanziari con i quali si sarebbero mantenuti nel loro soggiorno turistico in Europa. I mezzi finanziari non furono reputati sufficienti dalle autorità slovene e l’autobus si girò per riportare e abbandonare la famiglia rom al primo autogrill croato. Un tragitto breve, ma che bastò all’autista per tenere una sua lezione. «Con 50 euro in Occidente non si va neanche al mercato», disse con aria vissuta. «Con questa gente qua non entreremo mai in Europa», commentò la signorina bionda che mi sedeva accanto, mentre si controllava lo smalto sulle unghie.
Ho tanti ricordi belli e brutti legati ai viaggi in autobus. Se non altro mi fecero capire quelle che sono le distanze e che luogo assurdo sono le frontiere.
Un paio di settimane fa dovevo inviare un pacchetto in Serbia e prima di pensare alla posta mi è sembrato naturale pensare di mandarlo con l’autobus. Ho controllato gli orari su internet e sono andata a Cascina Gobba con il mio pacchetto. Peccato che dell’autobus, che diverse volte in passato avevo preso a quell’ora e in quel giorno, non c’era traccia. Ho chiesto in giro informazioni ma la maggior parte delle persone non ne sapeva nulla. Poi qualcuno mi ha detto che l’autobus, se non trovava posto di fronte alla stazione come un tempo, fermava sul retro. Io ho seguito le indicazioni e sono entrata in un’altra dimensione, quella della città ucraina-moldava-rumena. Un parcheggio adibito a mercatino dove si può trovare tutto quello che serve. Da una scheda telefonica per chiamate internazionali a una badante in cerca di lavoro, a un modo per spedire a basso prezzo una bara in Moldavia. Quando ho visto che ero entrata attraverso la porta dell’Est mi sono sentita rincuorata e ho pensato che avrei trovato il mio autobus. Ho chiesto in giro e finalmente una persona in un italiano non proprio fluente mi ha detto che sì, c’era un autobus per Belgrado, verso le 4, forse fermava lì o forse davanti. Ho teso l’orecchio alle voci, ma di serbi nessuna traccia. Sono ritornata di fronte alla stazione, ho trovato un autista italiano e ho chiesto di nuovo. «Loro sono tutti là dietro», mi ha detto lapidario e io ho riattraversato il parcheggio e sono rientrata nel mercatino ma niente. Forse avevo sbagliato Est. E soprattutto, chi erano loro? A chi si riferiva? Agli esteuropei in generale, scritto tutto attaccato? Dov’erano i serbi? Davanti alla stazione con noi o dietro con loro? Non ho trovato risposta perché l’autobus non l’ho trovato. Ho chiamato il numero della compagnia di autobus di Belgrado ma era tardo pomeriggio e nessuno mi ha risposto. Ho ripreso il mio pacchetto e sono tornata a casa. Fidarsi degli orari su internet è stata veramente un’ingenuità imperdonabile.
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