Un inverno a Malta

Lontano dalle emergenze degli sbarchi estivi, viaggio nei principali centri di accoglienza “aperti” dove adesso vivono poco più di mille migranti. Integrazione, storie difficili, sogni e il fenomeno dell’ “immigrazione inversa”

[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/03/Sara.jpeg[/author_image] [author_info]di Sara Lucaroni. Nata ad Arezzo nel 1980, giornalista professionista, si è laureata con una tesi sulla metafisica cartesiana. Si occupa di sociale, lavoro, politica, storie di sport. Ha collaborato con Italia7, TV2000 e Globalist. È coautrice di un romanzo sulla disabilità e autrice di due documentari: sull’immigrazione, “Chi siamo noi” e sulla Resistenza, “Diari di Guerra”.[/author_info] [/author]

23 marzo 2014 – A Malta l’inverno è piovoso. E anche in primavera qualche volta il cielo è un colosso lattiginoso di acqua e sabbia che avvolge l’antica Mdina, la distesa dorata della capitale La Valletta, la Portomaso Business Tower, costruita quasi sugli scogli. Anche le palme dell’aeroporto, e le alte recinzioni dei centri di accoglienza per i migranti. Omar ha 23 anni, è sopravvissuto al naufragio dello scorso 11 ottobre al largo di Lampedusa. Fermato nei Paesi Bassi, ha dato in escandescenze davanti al giudice maltese che lo ha condannato a 6 mesi di carcere per essere fuggito dall’isola con un passaporto falso. Stessa sorte per un suo connazionale, stavolta arrestato in Italia: con un permesso temporaneo o documenti non validi, si viene rispediti nel primo paese di accoglienza, come impone l’accordo europeo Dublino II.

Tanti hanno percorso e stanno percorrendo lo stesso corridoio umanitario: dall’Italia verso Germania e Paesi scandinavi. Malta è uno scoglio sulla rotta delle imbarcazioni fabbricate dai trafficanti libici negli scantinati.

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Della notte in cui morirono più di 260 profughi siriani, sono rimasti gli sforzi per ricongiungere le famiglie divise durante il salvataggio, il processo ad un sospetto scafista e una polemica fredda tra Malta e Italia sulle responsabilità nei presunti ritardi dei soccorsi. I 150 sopravvissuti accolti sull’ex colonia inglese hanno chiesto asilo e si sono messi in fila per un posto letto nei centri di accoglienza: chi non ha ottenuto lo status di rifugiato ha provato ad organizzarsi come fa ogni “illegal migrant” che dopo la detenzione nelle carceri/caserme di Hal Safi o Lyster Barracks, dove si resta fino a 18 mesi in condizioni durissime, ottiene un documento, si vede assegnati poco più di 4 euro al giorno e un alloggio in uno dei 6 Open Centers, con l’obbligo di firma. Poi si può provare a cercare un lavoretto. O si fugge di nuovo, magari pagando trafficanti locali. A dicembre solo 11 dei siriani sopravvissuti abitavano ancora negli Open. Qualcuno ha trovato un alloggio privato, altri hanno lasciato l’isola. A metà gennaio, dei 2.800 migranti arrivati nel 2013, 1.421 erano ospitati nei centri aperti. Almeno 5 mila presenze in totale su 416 mila abitanti, che aspettano i fasti della nuova stagione turistica e percepiscono più che mai il fenomeno migratorio rafforzato dalle Primavera Araba come una potenziale “invasione culturale. I più ottengono una protezione sussidiaria o temporanea, ma il “migrante economico” è solo un uomo o una donna che fugge dalla povertà. E i rimpatri in paesi con cui non ci sono contatti diplomatici sono difficili.

L’isola-prigione è diventata un crocicchio. Lo dimostra il fenomeno dell’“immigrazione inversa”: molti tornano spontaneamente, altri lasciano l’Italia per cercare lavoro nell’industria turistica o nell’edilizia. E non è chiaro se arrivino ancora una volta illegalmente partendo dalle coste italiane e se le autorità sappiano della loro presenza.

«Spagna e Italia negli ultimi 10 anni sono state molto generose. I migrati africani arrivati qui hanno preso le barche e sono andati in Italia di notte e hanno ottenuto il permesso di soggiorno. Dopo un po’ sono tornati, per vivere e lavorare con il documento che Malta gli aveva rifiutato. Un permesso per 10 anni. Poi lo hanno detto ai loro amici», spiega Ahmed Bugre direttore della Foundation for Shelter and Supports to Migrants, una ONG che gestisce per conto del governo il Marsa Open Center: una ex scuola con programmi di educazione, sostegno psicologico e vitto e alloggio per soli uomini, che per l’80 % provengono da Somalia ed Eritrea e il restante da altri 20 paesi africani. Per avere accesso al centro serve un documento di identità, è accaduto che molti si presentassero con un permesso di soggiorno italiano, a volte scaduto, altre volte nuovo. «Gli abbiamo chiuso le porte», dice Bugre, secondo il quale la maggioranza dei migranti sulla strada vengono da Italia e Spagna ed è fondamentale educare e responsabilizzare chi arriva. E poi ci sono i somali, “che fanno la loro vita”: «Vanno e vengono. Vivono qua con un soggiorno italiano, vengono a Malta prendono un biglietto per l’Egitto, vanno in Somalia, poi in Eritrea, poi Nigeria,di nuovo in Egitto poi ancora Malta e poi Italia. Tutto questo regolarmente». Davanti al Centro il venerdì c’è il mercatino: cibo, vestiti, chiacchiere. Chi lo gestisce guadagna i soldi da spedire a casa. Sul ponte, nel cuore del porto industriale, è ormeggiata una nave da guerra libica. Durante la settimana a decine aspettano che i furgoni li carichino per lavorare a giornata, anche a nero, nei cantieri edili. Anche al Centro ci sono i lavori, li dirige un somalo arrivato sull’isola dieci anni fa. Ha le idee chiare Bugre, che pensa come la cooperazione tra gli attori dell’accoglienza – governo, associazioni e ONG – sia la chiave del suo funzionamento.

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Per l’isola che sa di essere solo una meta temporanea, è l’Italia a dover pensare a politiche integrative serie. «E’ poco inutile investire sull’integrazione nel sistema maltese se loro vogliono solo avere i documenti per raggiungere l’Italia – prosegue – Soldi per accogliere e sfamare i migranti ne sono arrivati tanti, ma Malta chiede accordi che rivedano il Dublino II e pianifichino la “re-location” delle persone». Dicono che il razzismo non c’entra: si vive di turismo, i capannelli in città sono malvisti. Magari non tutti hanno lavorato nell’amministrazione finanziaria come Asha, che ha stampato il suo curriculum in formato europeo, col sogno della Svezia. Ad Hargheisa, in Somalia, è stata violentata: «Erano quattro o cinque uomini». Con il marito ha intrapreso il viaggio mentre era incinta del loro primo figlio, perso nel centro di detenzione in cui è rimasta rinchiusa per 8 mesi. Le è stato rifiutato lo status di rifugiata, lo chiederà di nuovo. I più pensano che i migranti sfamati dal sistema e desiderosi solo di essere altrove non sono neppure ricettivi ai tentativi di inserirli nella società, la quale sarebbe presto satura di famiglie che si ingrandiscono, com’è nella loro cultura, e che continuano solo a sognare un’altra meta. Il tutto in spazi ridotti e dentro una cultura troppo peculiare. L’anno scorso sono state ricevute più di mille persone rifiutate da Olanda, Danimarca e Germania. Nel luglio scorso il premier laburista Muscat ha alzato il tiro con Bruxelles cercando di rispedire in Libia due voli con somali ed eritrei e non autorizzando uno sbarco ad agosto.

Il sistema regge, fuori dalle emergenze. Lo sa il responsabile di Ħal Far – Hangar Open Centre Albert Cauchi. «Ho aperto io il centro», dice mentre fa il giro del piazzale spazzato dal vento, dove un gruppo di ragazzi ghanesi ascolta musica col telefonino. Nelle cucine comuni, una tavola di legno impedisce di scivolare su una perdita d’acqua. Il nome viene da un vecchio hangar nel quale all’inizio dormivano in 600. Adesso ci vivono 300 uomini sistemati in moduli abitativi da 6, acquistati con i fondi europei. I precedenti venivano da Bergamo, erano destinati ai terremotati e di persone ne ospitavano 16. «E’ la stessa vecchia storia – spiega – Dopo la detenzione vengono qua per vivere, ma molti trovano una strada per entrare in Europa. Vogliono andare in Norvegia, dove ad esempio c’è una grande comunità somala, ma nessuno sa cosa trova. Molti ritornano qui a Malta. Una volta tornati devono trovare un posto dove vivere, non possono più entrare nei centri». Abdhi Fatha, partito nel 2012 da solo dalla Somalia a 16 anni, non ci pensa ad andare via. È tifoso di Manchester United e Milan e sogna di fare il calciatore. Sull’isola va a scuola di lingue, stare richiuso per 18 mesi a Safi non gli ha spento l’entusiasmo. Alcuni dei ragazzi con cui gioca a calcio partecipano a corsi e programmi gestiti da religiosi o da qualche associazione. Altri invece vanno in città, si incontrano, ciondolano lungo le strade. L’Agency for the Welfare of Asylum Seekers fa sapere che il Governo si prepara a nuove emergenze attraverso “l’impiego di ulteriore personale e alcuni progetti di ristrutturazione”. E mentre il ministro degli interni Manuel Mallia lancia l’idea di aprire un ufficio in Libia sotto l’egida UE, dove richiedere asilo senza attraversare il Mediterraneo, l’ultima relazione dell’agenzia europea Frontex, annuncia un’estate di “forte pressione migratoria”, con migliaia di migranti in Libia già pronti a partire per l’Europa. Il mare ha già cambiato colore, i viaggi sono già cominciati.

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All’Ħal Far Tent Village le tende sono state sostitute da tempo con una distesa di moduli abitativi, con grandi bagni in comune. Si trova quasi di fronte ad uno dei centri di detenzione, teatro di una nuova rivolta, poche settimane fa: 7 migranti sono stati condannati ad un anno di carcere per aver aggredito personale miliare e polizia durante la protesta scoppiata nel corso della visita di una delegazione di parlamentari. Un gruppo di bambini canta a squarciagola in italiano “San Michele aveva un gallo”. C’è la mano delle suore cattoliche, si occupano soprattutto di famiglie, donne e bambini non accompagnati. Una ragazza somala lava i vestiti con i detersivi presi in città, ci va come tutti con un unico autobus, la linea X4, per fare i documenti, frequentare qualche programma, incontrare connazionali. Amel è qui sola, da sei mesi. Ha fatto amicizia con Fatima, anche lei somala, una donna allegra e corpulenta che ha abitato a Roma. Le fa un po’ da madre. Vorrebbe tanto avere la tv, ha una buona esperienza come cuoca e domestica. «Una volta avuto il passaporto maltese puoi andare dove vuoi, adesso ho solo un documento di viaggio». Molti per avere lo status di rifugiato dichiarano di provenire dal Darfur. In una famiglia di profughi palestinesi originaria di Homs si discute di andare in Australia: Mohamed, imbianchino di 26 anni, è arrivato ad ottobre con parte della sua famiglia e con quella della moglie Arafh, sposata in Libia prima di partire. Ma c’è poca intimità perché nel modulo a loro assegnato vivono in 8: padre, madre e i quattro fratelli minori della sposa.

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A Kamal, siriano di Daraa, un militare ha detto: «Non ti piace Malta? Fai finta di stare qui in vacanza». Si è arrabbiato, è bloccato senza passaporto e senza documenti, non vuole che gli prendano le impronte. Racconta che nei tre anni di servizio nell’ esercito di Bashar al Assad aveva un mitragliatore, nell’anno con il Free Syrian Army, difendeva villaggi, strade e aeroporti con un lanciarazzi. Quando l’esercito lealista gli ha ucciso sorella e fratello e distrutto la casa, ha dovuto comprare al mercato nero un Kalashnikov per 3.000 dollari. Lo ha preso dai Druz, un gruppo religioso attivo in Libano, Giordania, Israele e confine siriano. Ha lasciato il paese all’inizio del conflitto e adesso vive nel container con altri due connazionali e un palestinese che fa il coach di basket in una caserma. C’è il 31 enne Halid che in Siria faceva lo chef, c’è Hasan, 23 anni, che sta provando a lavorare in un cantiere edile ed ha attraversando Giordania e Libia per cercare di raggiungere la famiglia a Londra. Kamal è fuggito perché, dice, «è in atto una grande battaglia tra il regime e l’organizzazione islamista Daesh. Vogliono fondare un impero islamico come quelli di un tempo. I combattenti vengono da vari paesi, jiadisti, islamisti, anche dallo Yemen. Il mio problema non è con Assad ma con questi gruppi integralisti». Dice che ai siriani interessa solo la libertà: «Tutti fanno affari con Assad, ma il popolo non ha più nulla. Dormi e ti uccidono, esci fuori e ti uccidono, senza più distinzioni. E io sono qui a Malta». Ha chiamato gli amici: «Torno in Siria».

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