Egitto, indifferenza colpevole

24 marzo 2014 – 529. “Egitto, condanne a morte per 529 Fratelli Musulmani”. Avete letto bene, poco più di una breve per gli Esteri.  Hosni Mubarak, trenta anni al potere, accusato della morte di più di mille persone: in tre anni, dalla rivolta di Tahrir nel 2011, 10mila ore di processo e ancora si aspetta una sentenza, come spiega lo scrittore Tahar Lamri.
529 – la maggior parte di essi studenti – persone condannate a morte in due sedute di 20 minuti ciascuna, senza prove, senza ascoltare gli imputati, senza garanzie. Ripubblichiamo un editoriale del caporedattore Christian Elia

Al Cairo l’opposizione è in carcere, come molti attivisti e giornalisti. L’esercito si prepara a governare, ma tutto questo non riesce a mobilitare le opinioni pubbliche in Europa e altrove

di Christian Elia

6 febbraio 2014 – L’immagine è di quelle che restano. Mohammed Morsi, presidente dell’Egitto eletto dai cittadini e rovesciato da un golpe dell’esercito egiziano, è in una gabbia insonorizzata. Si tiene l’udienza del processo contro di lui, non si vuole correre il rischio che faccia sentire la sua voce.

Parliamoci chiaro, guardiamoci dentro. In quale altro paese avremmo permesso che accadesse senza battere ciglio? La mia generazione è cresciuta con tante icone, tante narrazioni più ricevute che vissute. Importanti, però. Una su tutte, quella dell’11 settembre degli altri, quando nel 1973 la Cia e i militari cileni rovesciarono il presidente eletto Salvador Allende, che si tolse la vita nel palazzo presidenziale di Santiago del Cile.

Nessuno può e deve tendere corde troppo ardite tra periodi e situazioni differenti, ma è grave il silenzio indifferente, quindi complice, che in tante parti del mondo accompagna quello che accade in Egitto.

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La tentazione di cedere alle facili semplificazioni è avventata, ma è legittimo il dubbio che la mobilitazione e la pressione sui governi sarebbe molto più forte se il presidente spodestato non rappresentasse i Fratelli Musulmani.

Il Consiglio Supremo delle Forze Armate egiziane, seguendo un iter democratico nelle forme, ha concesso ad al-Sisi la possibilità di candidarsi alle prossime presidenziali. Come se fosse in discussione. Idem per il referendum sulla riforma della Costituzione: se oggi Morsi langue in prigione, è anche perché è stato accusato di aver voluto cambiare la carta fondamentale per i fini degli islamisti.

Qual è dunque il valore di questa carta, mentre il leader dell’opposizione è in carcere, mentre migliaia di dirigenti e di attivisti dei Fratelli Musulmani sono in arresto? E non solo loro, perché venti giornalisti di al-Jazeera vengono accusati di essere terroristi. Gli attivisti di sinistra Alaa Abdel-Fattah e sua sorella Mona Seif sono stati condannati a un anno di reclusione con l’accusa di aver dato fuoco alla sede della campagna elettorale del candidato vicino all’ex presidente Hosni Mubarak, Ahmed Shafiq, in occasione delle elezioni presidenziali del 2012. Pena sospesa, perché è in corso un altro processo contro militanti per aver violato la legge ‘anti-proteste’.

Il quadro è fosco, complesso. La violenza riesplode, come nell’anniversario della sollevazione del 2011, all’improvviso. L’Egitto, oggi, deve essere al centro di una riflessione collettiva, istituzionale e di cittadinanza attiva, perché la restaurazione in corso nel Paese del Nord Africa è drammatica. Tanti, anche in Egitto, hanno guardato ai militari come un baluardo laicista contro l’islamizzazione della società egiziana.

I Fratelli Musulmani, come è accaduto in Tunisia, sono un attore politico con il quale confrontarsi, nel campo della lotta democratica e della società. Se una deriva era in atto, la soluzione non sono i militari e la repressione. A questo principio non bisogna mai delegare, anche quando le vittime non la pensano come noi.

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