Obama chiama Ue

Il presidente statunitense in viaggio in Europa, proverà a ravvivare i rapporti diplomatici nel Vecchio Continente. L’obiettivo è quello del 2009:  annullare la prassi “unilateralista” di George W. Bush

di Gianluca Pastori*, ispionline.it

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26 marzo 2014 – Il viaggio che Barack Obama compirà questa settimana e che, per varie ragioni, lo porterà a toccare una serie di capitali europee, cade in una fase importante delle relazioni fra il Vecchio Continente e gli Stati Uniti. Se la crisi ucraina ha attribuito agli incontri di questi giorni un’urgenza nuova e in parte inattesa, l’esigenza di fondo di consolidare le basi di un dialogo transatlantico sempre più complicato appare, infatti, una delle priorità della visita presidenziale.

Nei prossimi mesi, un serie di eventi (fra questi: il rinnovo del Parlamento e dei vertici politici dell’Ue, il vertice Nato di South Wales e la scelta del nuovo segretario generale dell’Alleanza, e le elezioni di midterm negli Stati Uniti) contribuirà in maniera significativa a tracciare la strada lungo cui si muoverà il sistema dei rapporti euro-americani negli anni a venire.

Questo in un contesto generale in cui – al di là di convergenze formali largamente scontate – le percezioni di sicurezza e gli interessi politici dei diversi partners sembrano divergere su una lunga serie di questioni.
Non è la prima volta che, dal suo arrivo alla Casa Bianca, Obama è chiamato a rivitalizzare una relazione apparentemente logora. Già nel 2009, in occasione del vertice Nato di Strasburgo-Kehl (3-4 aprile), la visita in Europa del presidente, insediatosi in gennaio, era stata preceduta da grandi aspettative, alimentate anche dalla coincidenza con il sessantesimo anniversario della stipula del Trattato Nordatlantico (4 aprile 1949).

Secondo la narrazione allora corrente, la visita di Obama avrebbe dovuto rappresentare un momento di rottura con la prassi “unilateralista” del suo predecessore, George W. Bush, e di riscoperta di un rapporto “necessario” fra Stati Uniti ed Europa, che andasse oltre i legami bilaterali “privilegiati” (come quello con la Gran Bretagna o, in misura minore, con l’Italia) che avevano caratterizzato il periodo precedente.

Nonostante gli esiti deludenti di questa prima esperienza, la narrazione che la sosteneva non sembra avere perso forza, e sembra, anzi, riemergere ciclicamente, soprattutto nei momenti di crisi.
Assunto implicito in questo modo d’intendere le cose è il permanere, fra Europa e Stati Uniti, di interessi e valori comuni. Tali interessi e valori comuni (incarnati, in larga misura, nell’Alleanza Atlantica) rappresenterebbero, allo stesso tempo, la ragione e il prodotto di una visione del mondo condivisa, che garantirebbe la convergenza delle posizioni di fondo dei partners al di là di possibili, momentanee divergenze di vedute.
Una lettura in parte oleografica dell’esperienza della guerra fredda sostiene questo assunto, mentre l’ipotesi di una proiettabilità nel futuro di tale esperienza (ad esempio, nella forma della “Global War On Terror”) fornisce legittimazione all’idea di una collaborazione continua.

In questo schema, la centralità strategica dell’Europa per gli Stati Uniti è data largamente per scontata, così com’è dato per scontato il fatto che Washington accetti – come fatto in passato – di subordinare alla necessità di preservare il rapporto transatlantico il perseguimento dei suoi obiettivi politici, economici e militari in altri teatri.

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Nel corso degli ultimi anni, tuttavia, la sostenibilità di questa narrazione si è fatta sempre più problematica. Le radici di questo processo sono profonde e predatano la (presunta) “deriva unilateralista” dell’amministrazione Bush.
Negli anni della presidenza Obama, il “pivot to Asia” prima, la politica del “ripiegamento” (understretching) poi, al di là delle loro cause contingenti, hanno intaccato ulteriormente il paradigma della “centralità europea”.
In termini storici, e nella misura in cui implica una rilettura “globale” degli interessi e delle politiche statunitensi, ciò configura un ridimensionamento (seppure parziale) di tale paradigma come chiave interpretativa del periodo della guerra fredda. Più concretamente, ciò mette in discussione gli assunti su cui la posizione europea si è tradizionalmente fondata, sia all’interno della Nato, sia fuori da questa. In questa prospettiva, sembra eccessivo attendersi, dal viaggio di questi giorni, l’inversione di un processo di allontanamento e di estraniazione le cui ragioni sono essenzialmente strutturali.

Oltre a un alto livello d’integrazione economica e commerciale, Stati Uniti ed Europa condividono valori, prassi e un’importante esperienza storica. Anche per questo, il loro rapporto conserverà a lungo una centralità particolare nel sistema delle relazioni internazionali.

D’altra parte, le divergenze emerse su come gestire la crisi in corso in Ucraina offrono l’immagine chiara di come, lungi dal poter essere dati per scontati, i termini del tale rapporto costituiscono (e costituiranno sempre più in futuro) oggetto di continua negoziazione. Gli esisti di questa negoziazione sono aperti a diversi risultati.
Il timore del nuovo espansionismo russo potrà fungere, sul breve periodo, da collante. Resta però da dimostrare se e come tale collante reggerà la prova del tempo. Anche se i rapporti con Mosca hanno sperimentato, negli ultimi tempi, un netto deterioramento, lo scenario è, oggi, assai diverso rispetto a quello della guerra fredda. Un fatto, questo, che dice molto riguardo alla forza relativa di Barack Obama e dei suoi interlocutori europei.

*Gianluca Pastori è professore aggregato di Storia delle relazioni politiche fra il Nord America e l’Europa, Facoltà di Scienze Politiche e Sociali, Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano.

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