[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/1015058_4778608114201_571572631_o.jpg[/author_image] [author_info]di Elena Esposto. Nata in una ridente cittadina tra i monti trentini chiamata Rovereto, scappa di casa per la prima volta di casa a sedici anni, destinazione Ungheria. Ha frequentato l’Università Cattolica a Milano e si è laureata in Politiche per la Cooperazione Internazionale allo Sviluppo. Ha vissuto per nove mesi a Rio de Janeiro durante l’università per studiare le favelas, le loro dinamiche socio-economiche, il traffico di droga e le politiche di controllo alla criminalità ed è rimasta decisamente segnata dalla saudade. Folle viaggiatrice, poliglotta, bevitrice di birra, mediamente cattolica e amante del bel tempo. Attualmente fa la spola tra Rovereto e Milano[/author_info] [/author]
27 marzo 2014 – È domenica mattina nel morro da Congonha, zona nord di Rio de Janeiro. Io non c’ero, non ci sono mai stata, ma posso immaginarlo. Inizia ad albeggiare, la favela si sveglia timidamente dopo il sabato di baldoria, ha gli occhi pesti, è assonnata. Il silenzio è rotto dal brusio umano che nelle nostre città è spesso coperto dal rombo dei motori.
Scalpiccio, bisbigli, risate a voce alta, suoni di vita che si risveglia. E poi suoni di morte. Spari. Sono le 9 quando un anonimo automobilista filma una scena raccapricciante. Una macchina della polizia sfreccia davanti a lui. Ad un certo punto il baule dell’auto si apre e ne scivola fuori un corpo che resta impigliato per i vestiti. I poliziotti non se ne accorgono subito e trascinano il corpo sull’asfalto per 250 metri. Poi la volante si ferma, un poliziotto ributta ilcadavere nel bagagliaio e ripartono.
La donna si chiamava Claudia Ferreira e viveva nel Morro da Congonha. Quella maledetta domenica era uscita a comprare il pane per preparare la colazione ai suoi quattro figli e quattro nipoti. I poliziotti hanno scambiato per un’arma il bicchiere di caffè che aveva in mano e le hanno sparato a bruciapelo. Poi l’hanno caricata in macchina per portarla all’ospedale. Perché sì, quando Claudia è stata messa nel bagagliaio era ancora viva. Il resto della storia credo non abbia bisogno di ulteriori delucidazioni. Claudia è morta. Morta come un cane. La notizia viaggia sulla rete. Il video finisce su youtube, appaiono articoli sulle grandi testate nazionali di Rio e la notizia scappa dai confini. Se ne parla a São Paulo, se ne parla nel Nordest, nel Distretto Federale. Escono articoli sulla BBC, sui giornali statunitensi e perfino sul Fatto Quotidiano.
Perché tanto scalpore, mi chiedo? Sono decenni che nelle favelas muoiono centinaia, migliaia di Claudia, di João, di Ana, di Paulo e di Eduardo. E allora perché? Non può essere una questione di numeri. I morti di questa guerra nascosta non si contano; avremmo dovuto iniziare a indignarci molto tempo fa.
Non può neanche essere perché Claudia é Claudia. Trentotto anni, sposata, madre di quattro figli cresce anche quattro nipoti. Una storia comune. Amarildo de Souza, scomparso nella favela della Rocinha quest’estate di figli ne aveva sei. E allora?
E non è neanche il modo. Non esiste un modo bello per morire, un modo giusto. In questi decenni di massacri nelle favelas ci sono state esecuzioni sommarie, torture, gente che veniva impalata, bruciata viva. No, non può essere il modo.
È che questa volta ci siamo spinti troppo in là.
La morte di Claudia, uccisa a sangue freddo e trascinata sull’asfalto come nell’agghiacciante scena dell’Iliade dove Achille trascina il cadavere di Ettore intorno alle mura di Troia, segno di altissimo disprezzo verso il nemico, grida una verità amara. Grida che in Brasile se sei negro e favelado (e la scelta dei termini non è casuale) non vali niente. Puoi essere ucciso nel modo più brutale, trascinato agonizzante sull’asfalto rovente e poi ributtato nel bagagliaio di una macchina perché tanto la tua vita non vale niente.
Ce ne sono tanti come te nelle favelas, credi che cambi qualcosa se crepi come un animale? No, fratello mio, non gliene frega un cazzo a nessuno. I poliziotti che l’hanno ammazzata sono in libertà vigilata ma non temete, verranno scagionati e scusati. Forse diranno che hanno fatto anche bene. La classe media si è un po’ infastidita, ma niente di troppo grave. Non ci sono state manifestazioni di massa per Claudia, solo nella zona nord vicino a dove è stata uccisa c’è stato un po’ di movimento ma lì, lo sappiamo fin troppo bene, i figli della classe media non ci vanno.
Ma la morte di Claudia non è un caso isolato. Nelle ultime settimane la morte è tornata a visitare le favelas di Rio, anche quelle pacificate. Il traffico di droga è tornato alla carica. Sono morti poliziotti. Ci sono state sparatorie.
Un colpo basso per il Segretario della Segurança Pública, Mariano Beltrame, che ci era quasi riuscito a vendere un’immagine di Rio ripulita dalla violenza. Ma proprio lui, Beltrame, uno dei più fermi sostenitori nonché uno degli ideatori delle UPP (Unidades de Polícia Pacificadora) ha fatto un atto che se non sorprende lascia almeno un po’ perplessi. Un atto che, dal mio punto di vista, sancisce il flop definitivo della polizia di pacificazione. Ha annunciato ufficialmente che l’Esercito Federale occuperà militarmente il Complexo da Maré, un gruppo di favelas nella zona nord di Rio.
«Non stiamo pensando alla Coppa del Mondo, stiamo pensando ai cittadini brasiliani. Stiamo pensando ai poliziotti che stanno morendo ingiustamente per il fatto che i trafficanti stanno perdendo forza. La prova che la nostra politica è giusta è questa. Loro stanno cercando di ostacolare vigliaccamente questo programma (le UPP). Gli faremo vedere che lo Stato è più forte», dirà durante la riunione con il Governatore Sérgio Cabral e il Ministro della Giustizia e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
Qualche momento prima però Cabral aveva affermato: «Abbiamo chiesto al Governo Federale la GLO (Garanzia di Legge e Ordine) per il Complexo da Maré, un’area strategica dal punto di vista della sicurezza. A breve avremo la Transcarioca ed é vicina all’aeroporto internazionale. È un’area sensibile».
ATTENZIONE: IMMAGINI VIOLENTE
Grazie davvero, signor governatore, ma la sua precisazione era completamente inutile. Che volete occupare militarmente la Maré perché è un’area sensibile e non perché ve ne frega qualcosa dei “cittadini brasiliani” ci era chiaro dal principio. La Maré è il biglietto da visita di Rio, la prima cosa che appare agli occhi quando si entra in città venendo dall’aeroporto internazionale. È un po’ come quando arrivano visite e spazziamo per bene l’atrio. Poi chi se ne frega se lo sgabuzzino e la cantina sono sporche e disordinate. Sì, chi se ne frega se Madureira, Santa Cruz, Bangu e la Baixada Fluminense sono imbrattati di sangue misto a polvere. I panni sporchi si lavano in casa, l’importante e che i turisti e gli atleti non si accorgano di niente.
Ma credo che sfugga un piccolo dettaglio. La Maré è un complexo, di nome e di fatto. Con i suoi 150mila abitanti è una delle favelas più grandi di Rio; dominata da tre diverse fazioni di narcos è un vero e proprio rompicapo criminale. Per le forze dell’ordine sarà come giocare a una partita di Risiko.
Peccato che quelle 150mila persone di giocare con la propria vita non ne hanno per niente voglia. La Maré non è una favela qualsiasi. La società civile è organizzata, sono state fatte campagne per sensibilizzare la popolazione, per farle conoscere i suoi diritti. La gente della Maré non accetterà in silenzio i soprusi e gli abusi di potere. Tutti gli occhi sono puntati su di loro.
Per ora la favela è occupata dalla Polícia Militar, le scuole sono chiuse, la gente ha paura di uscire di casa per andare al lavoro, ci sono sparatorie, conflitti tra polizia e trafficanti.
Fuori dalle mura di cinta il Governo Federale dispiega le truppe per mettere in chiaro ai trafficanti che se la guerra è quello che vogliono guerra avranno.
E questa nuova pagina di storia è ancora tutta da scrivere.
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