Migliaia di volontari da tutto il mondo si uniscono volontariamente alle guerre in nome della liberazione dei musulmani oppressi
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di Lorenzo Vidino, ispionline.it
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Dai tempi della guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica la dottrina del volontarismo jihadista, elaborata da strateghi quali Abdullah Azzam nei primi anni ‘80, ha portato decine di migliaia di musulmani da tutto il mondo a combattere in conflitti dove il movimento jihadista ritiene i musulmani siano oppressi e sia perciò obbligatorio intervenire in loro soccorso. Il fenomeno è continuato negli anni ’90 (in Bosnia e in Cecenia) e 2000 (in Iraq e in Somalia) ed alcune stime suggeriscono che fino a 30.000 volontari jihadisti abbiano combattuto in vari conflitti negli ultimi 30 anni.
Il fenomeno pare aver ricevuto una brusca accelerata negli ultimi due anni con l’acuirsi del conflitto siriano. Nonostante l’inesistenza di dati certi, si stima che più di 10.000 combattenti stranieri si siano uniti alle formazioni ribelli che si oppongono al regime di Bashar al-Assad.
Di questi circa 2.000 provengono da paesi occidentali, in particolare da Francia (circa 500), Gran Bretagna (400), Germania (270), Belgio (230) e Olanda (100). L’Italia pare toccata dal fenomeno solo marginalmente – si stima che i residenti della penisola giunti in Siria siano meno di una dozzina (incluso il convertito genovese Giuliano Delnevo, morto in combattimento nel giugno 2013).
Vi sono inoltre indicazioni che volontari stranieri si siano aggregati anche a milizie sciite, curde e cristiane operanti nel Paese. Il fenomeno sta destando notevoli preoccupazioni tra le forze di intelligence e sicurezza mediorientali e occidentali che temono il cosiddetto “blowback”, cioè un contraccolpo simile a quello della guerra in Afghanistan, i cui veterani al termine del conflitto esportarono l’ideologia jihadista e tattiche militari in giro per il mondo. Il timore è che reduci del conflitto siriano vicini agli ambienti qaidisti sviluppino contatti con altri militanti e utilizzino il know how operativo acquisito sui campi di battaglia siriani per compiere attacchi nei propri paesi di origine.
La potenziale pericolosità dei veterani del conflitto siriano è molto dibattuta. Pare evidente che molti di coloro che hanno combattuto in Siria lo abbiano fatto per solidarietà con il popolo siriano e non ritorneranno in patria con l’intenzione di compiere attacchi terroristi.
Inoltre, con tutti i suoi limiti, l’esperienza del passato ci dice che solo uno su nove dei veterani jihadisti degli ultimi 30 anni si è dedicato ad attività terroriste una volta terminata la propria esperienza.
Tuttavia vi sono ragioni concrete che fanno temere che almeno alcuni dei reduci del conflitto siriano possano commettere azioni terroriste una volta lasciato il Paese. Alcuni degli attacchi che hanno colpito l’Egitto negli ultimi mesi, per esempio, sono stati compiuti da membri del gruppo Ansar Bayt al-Maqdis di ritorno dalla Siria. E anche in Occidente le forze di intelligence hanno rivelato come «gruppi estremisti in Siria con legami con al Qaeda stiano cercando di identificare, reclutare ed addestrare americani ed altri occidentali per far loro compiere attentati una volta ritornati in patria». Nel tardo 2013 le autorità inglesi paiono aver sventato il primo di tali attentati con radici in Siria, un piano per compiere raid armati simultanei simili a quelli di Mumbai nel 2008 nel centro di Londra.
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