Il fenomeno dell’urbanizzazione è in crescita in tutto il mondo. Di fronte alle sfide poste dalla sostenibilità ambientale, decisiva sarà la capacità delle comunità urbane di progettare e attuare modi di cooperazione civile, nonchè di mettere in rete le loro esperienze
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di Bruno Giorgini
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Triste quella vita che non vede, non ode, non sente se non che oggetti semplici
(G.Leopardi)
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1 aprile 2014 – La città è per eccellenza il luogo dove nasce e si sviluppa la civiltà umana. La polis greca è intimamente costituita da geometria e istituzioni politico-religiose, funzionali a renderla ethica, cioè abitabile. Attorno sta la periferia, in greco “circonferenza”, il limite o confine tra città e campagna, tra chi sta dentro, godendo del diritto di cittadinanza, e chi sta fuori, escluso dallo stesso diritto. Il secondo snodo, almeno in quell’area del mondo che conveniamo chiamare Occidente, è l’urbe romana, abitata e agita dalla civitas, la cittadinanza, crogiuolo collettivo di popolazioni differenti. La Roma imperiale è una grande metropoli, letteralmente: la madre della città, cosmopolita, multietnica e multiculturale. Infine la rivoluzione scientifica tecnologica e industriale (oggi quella postindustriale e informatica nonché della comunicazione e del lavoro cognitivo) ha fatto sì che al presente oltre il 50% dell’umanità abiti in città, a questo punto senza alcuna distinzione tra Occidente e resto del pianeta.
Si tratta di un fenomeno mondiale in espansione, dove in particolare si stempera la città mononucleare, la forma della circonferenza diventando meno cogente, in favore di una rete aperta, tendenzialmente infinita, meglio senza confini, sconfinata e globale che chiameremo Cosmopolis, dal titolo di un bel libro di Don DeLillo. Guardando il futuro, le previsioni dicono che nel 2020 il numero dei cittadini crescerà fino al 60-70% della popolazione totale, e se allunghiamo il collo per dare un’occhiata fino al 2040 la popolazione urbana passerà dagli attuali 3.5 miliardi di individui a circa 5-6 miliardi.
Come è ovvio, sono numeri affetti da una larga incertezza, trattandosi di stime statistiche fondate su modelli predittivi che tipicamente estrapolano in modo lineare il futuro dalle nostre conoscenze presenti, mentre in genere i processi sono caratterizzati da non linearità, con possibili biforcazioni e soluzioni catastrofiche. Però l’andamento qualitativo è invece abbastanza ben definito, raccontandoci una inurbazione molto intensa e estesa in un intervallo temporale relativamente breve.
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Nel 1950, New York e Tokyo erano le sole megalopoli (numero di abitanti >10 milioni), nei venticinque anni seguenti nessuna altra città dei Paesi al tempo detti “sviluppati” ha superato i dieci milioni di abitanti, mentre due città dei paesi “sottosviluppati”, Shangai e Mexico City, sono diventate a loro volta megalopoli, salite quindi a quattro nel 1975. In seguito il XX secolo ha visto la crescita di altre 14 megalopoli, di cui tre nei paesi sviluppati e undici in quelli “in via di sviluppo” e/o emergenti. Complessivamente, 13 delle 18 megalopoli sono oggi localizzate al di fuori del mondo che usiamo chiamare “occidentale”.
La forza motrice dell’inurbazione è costituita dai poveri del mondo, che per la maggior parte popolano i cosidetti slums, agglomerati di baracche, tende, ripari di fortuna a corona delle città vere e proprie, essendo destinati a crescere. Ci raccontano i demografi che nel giro di pochi decenni saranno tra il miliardo e il miliardo e mezzo, e questa gigantesca migrazione dalle campagne alle città avverrà in larga misura nell’antico terzo mondo, Africa, Asia, America Latina.
Cioè siamo di fronte a un fenomeno globale di urbanizzazione quale l’umanità non aveva mai conosciuto per quantità e qualità, tanto che alcuni ricercatori parlano di un passaggio evolutivo dall’homo sapiens all’homo sapiens urbanis. Homo sapiens urbanis che dovrà fare i conti con una miriade di appartenenze a popolazioni disparate, ciascuna con la sue culture, le sue religioni, i suoi pregiudizi, i suoi razzismi, nonchè con spaventose diseguaglianze sociali e altrettanto spaventose disparità sul piano dei diritti di cittadinanza.
Questi agglomerati urbani quindi già sono, e sempre più saranno, traversati da conflitti molto acuti tali da mettere a rischio la convivenza civile. Con altro linguaggio, le dinamiche urbane sono già in molti casi, e saranno vieppù, sull’orlo del caos e/o di guerre civili ad alta o bassa intensità. Ma quegli stessi conflitti potrebbero portare a soluzioni costituenti un’autentica società dell’eguaglianza, insieme multietnica e multiculturale, con forme di cooperazione, in un processo probabilmente non indolore.
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Inoltre questa urbanizzazione significa un enorme aumento delle superfici costruite con conseguente riduzione delle aree coltivabili, boschive, degli spazi aperti, e della biodiversità, nonchè l’estensione spropositata di fenomeni di edilizia speculativa e di rendita fondiaria. Nel contempo questo fenomeno di urbanizzazione abbisognerà di grandi quantità di energia, materie prime, e cibo, per di più funzionando, se tutto rimanesse più o meno tal quale, come una enorme pompa che immette calore e altri gas serra nell’atmosfera. Atttualmente le varie attività urbane sono responsabili del 75% delle emissioni di CO2, che in misura più o meno grande a seconda dei modelli e delle filosofie, ma comunque consistente, contribuiscono al cambiamento climatico globale i cui effetti già misuriamo. Ovvero oltre le possibili “guerre civili tra gli umani” incombono anche le catastrofi ecologiche, in specifico quelle dovute al cambiamento climatico in corso. Il riscaldamento dovuto in buona parte all’effetto serra di origine antropica, che comporta tra l’altro l’aumento del livello degli oceani e dei mari, forzerà la stessa urbanizzazione in certe direzioni piuttosto che in altre, per esempio lontano dalle coste a rischio di sommersione e verso luoghi elevati sulla superficie delle acque, per non dire delle zone che andranno desertificandosi, mentre altre diventeranno alluvionali e cicloniche. Saremo cioè in presenza di un fenomeno che potrebbe riguardare centinaia di milioni di individui, spinti a abbandonare le loro attuali residenze divenute via via più impraticabili. In sintesi le città del futuro per vivere dovranno passare da un paradigma di dominio e sfruttamento senza limiti della natura a un contratto di equità con la natura, se si vuole un contratto che garantisca un “ricambio organico tra uomo e natura”, secondo la definizione marxiana di lavoro.
Anche qui relativamente facile a dirsi, ma come farlo? Per esempio col riciclaggio dei rifiuti, estraendone i metalli rari di cui le città sono ricche e le miniere ormai povere: alluminio, rame, ferro, acciaio, silicio, titanio fino al rarissimo indio. Sembra niente, ma chi studia queste cose offre numeri impressionanti, col che si capisce la demenzialità degli inceneritori dove si sversa e brucia ogni rifiuto cosidetto. Inoltre una parte dei quartieri poveri potrebbe specializzarsi nelle attività di riciclo, succede già in alcune città indiane. Così come per il problema del cibo le città dovranno sempre più fare affidamento sulle proprie forze, insomma destinare una parte del loro territorio alla coltivazione e allevamento – a Kampala il 30% circa del nutrimento è assicurato da produzioni locali. Tutti esempi parziali, piccoli rispetto all’entità dei problemi, che però significano attività e azioni possibili, senza aspettare vaghi se non improbabili accordi tra gli stati nazionali, e/o le entità sovranazionali.
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Decisiva sarà la capacità delle comunità urbane di progettare e attuare modi di cooperazione civile, nonchè di mettere in rete le loro esperienze, sapendo che molti e potenti sono i nemici di questa globale convivenza civile tra esseri umani, e con la natura.
Insomma la Cosmopolis diffusa sul pianeta dovrà costituire una rete sufficientemente robusta, elastica e adattiva, per resistere alle tensioni e torsioni prodotte dagli enormi problemi cui deve far fronte. Necessario appare ormai un radicale cambiamento del paradigma evolutivo fin qui egemone, quello del dominio sulla natura nonché dello sviluppo e accumulazione capitalistici senza limiti, dovendosi invece costruire un mondo sostenibile nei limiti imposti dalla natura: viviamo in un mondo finito e quindi non possiamo pensare una infinita crescita con un infinito sfruttamento delle risorse. Se per Marx l’unico limite allo sviluppo delle forze produttive era la proprietà privata dei mezzi di produzione, noi oggi sappiamo che un altro limite, fisico, è la finitezza del pianeta, e questa finitezza deve integrare il paradigma evolutivo, modificandolo in radice, con un esito non scontato.
Questa rivoluzione, paragonabile almeno con quella copernicana da cui nacque il moderno capitalismo e mondo scientifico tecnologico, sarà parecchio scabra e a sua volta fonte di aspri conflitti sociali, politici, economici, ideologici. I limiti nell’uso e consumo di beni essenziali quali l’energia, l’acqua potabile e irrigua, il suolo, le materie prime nonché nella produzione di merci e nell’accumulazione di denaro, accoppiati con le grandi migrazioni e le ondate di disoccupazione massiva per non dire della possibile penuria di grano, riso e altri generi di prima necessità per la vita, potrebbero indurre anche drastiche limitazioni delle libertà e dei diritti individuali e sociali fino a culminare in un nero e cupo fascismo della miseria e/o una dinamica del tutti contro tutti secondo la ben nota formula: homo homini lupus. Se poi consideriamo le contraddizioni tra stati nazionali e/o aggregati più ampi, Eurasia contro Americhe, America del Sud contro America del Nord, Africa campo di battaglia, Russia contro Usa, Germania e stati del Nord contro Europa Mediterranea, con tutte le guerre di religione, commerciali, economiche, etniche al seguito, a bassa e/o alta intensità, appare evidente che l’insieme di queste tensioni potrebbe frantumare Cosmopolis fino a cancellarla.
Uno degli elementi costituenti Cosmopolis è il Web, nelle sue varie articolazioni, da Internet ai social network, un mondo virtuale di informazione e comunicazione che nell’immaginario di molti può svilupparsi senza limiti, con una proliferazione tendenzialmente infinita. Da questa supposta “infinità”, non limitata da tutta la pesantezza del mondo materiale, alcuni traggono l’idea che la Cosmopolis digitale possa espandersi senza limiti e controindicazioni, ma non è così. Un eccessivo aumento nel numero di connessioni può generare instabilità che non solo in genere si propagano lungo l’intero sistema, ma anche possono amplificarsi, fino a distorcere i segnali, rendendoli irriconoscibili. Abbiamo così un cervello “digitale” che, sottoposto a impulsi eccessivi e sovrapposti, delira potendo impazzire. Il sistema “cervello” perde la capacità di distinguere le percezioni sensitive in entrata e, non riuscendo più a organizzarle in informazioni coerenti e in oscillazioni neuronali armoniche, si disloca in immagini confuse con una vera e propria cacofonia di battimenti.
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Ma la rete interagisce coi fenomeni del mondo reale, si pensi ai mercati finanziari, e le instabilità virtuali che, in regime di sovraconnessione si possono generare, inevitabilmente si diffonderebbero nei sistemi reali, sia incrementando le eventuali instabilità di questi, cioè funzionando come acceleratori delle crisi già in atto, sia diventando veri e propri generatori di nuove crisi, o almeno inneschi, in particolare le instabilità nella rete possono diventare generatori di panico. Quindi la presupposta infinità del mondo virtuale non lascia scampo al problema del limite, anzi lo rafforza, senza dire della scarsità di silicio, oggi elemento fondamentale per l’hardware dei sistemi informatici, dai calcolatori ai cellulari.
Di fronte a questa congerie di problemi, crisi, catastrofi più o meno annunciate che investono l’intera civiltà urbana mettendola a rischio, possiamo avere atteggiamenti diversi. Una tentazione sempre presente è quella di ballare bevendo champagne mentre il Titanic continua la sua rotta di collisione con l’iceberg che gli sarà fatale. Ovvero più o meno non si si può far niente, tanto vale godersi gli ultimi scampoli di vita, in attesa di tempi migliori, se mai verranno. È un atteggiamento molto più diffuso di quanto si creda, spesso inconscio, frutto della sensazione di impotenza dell’individuo faccia a faccia con problemi enormi che s’accatastano l’uno sull’altro. Un’impotenza sia cognitiva, l’impossibilità di conoscere come stanno sul serio le cose, che fattuale, l’impossibilità di metterci mano talmente appaiono fuori scala, tanto che gli stessi stati nazionali e le organizzazioni sovranazionali, ONU, UE ecc… si mostrano deboli frantumati inefficaci.
Un secondo atteggiamento consiste nel comporre un repertorio quanto più completo possibile delle varie crisi e problemi, attivando poi gli specialisti nei vari campi economia ingegneria urbanistica ecologia e tutti gli altri, quasi l’intera enciclopedia dello scibile umano, che cerchino di descrivere, capire, spiegare la crisi di loro competenza specifica, disegnando anche lo spettro delle sue possibili soluzioni.
In genere la fase conoscitiva e quella operativa per le soluzioni si sviluppano secondo protocolli internazionali quasi sempre ben stabiliti, sottesi da paradigmi di risconosciuta validità nel campo disciplinare d’interesse. In questo schema gnoseologico e operativo ogni cacciatore insegue la sua preda individuandone le tracce, così uno riconosce il percorso della lepre, un altro quelle della volpe, un altro ancora il cammino del lupo e un quarto quello della lince. Ma se le tracce delle diverse selvaggine si sovrappongono, intramescolano, confondono, e se poi addirittura compaiono tracce che non corrispondono ad alcun animale noto battendo sentieri fin qui ignorati o perché prima non esistevano, o perché nessuno li aveva visti, il metodo precedente diventa zoppicante se non fallimentare.
Detto in altri termini, ogni crisi interagisce con tutte le altre, una frattura in un campo si propaga negli altri, una soluzione qui può produrre un danno là, un economista si trova improvvisamente di fronte a un problema di psicologia sperimentale, mentre un esperto di finanza deve vedersela con un fenomeno di panico, e così via. La prima impressione è di essere finiti dentro una foresta inestricabile, risucchiati nel caos, con la tentazione di rinchiudersi nelle più quiete e sperimentate stanze dell’Accademia, laddove se non il mondo, almeno la nostra immagine del mondo ridiventa ordinata e serena.
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Oppure si può assumere come principio il fatto che siamo in presenza di un sistema urbano, o di una collezione di sistemi, sempre più pervasivo dell’intero territorio planetario, con una complessità fino a ieri inimmaginabile. Una complessità di individui, popolazioni, interazioni, geometrie frastagliate (frattali), che si dispiega su una molteplicità di scale spaziotemporali per parecchi ordini di grandezza, in linea di principio dalla prossimità all’intero globo. Se la città è oggi uno degli oggetti/fenomeni dinamici più complessi dell’intero universo osservabile, per capirla, e quindi capire noi stessi definendo il nostro sviluppo civile (nella costruzione e fruizione della città si incarna l’eterno umano), dobbiamo dotarci di una nuova scienza della città, la quale altro non può essere che scienza e filosofia naturale della complessità. Chiedendo ancora una volta aiuto alla geometria, introduciamo gli attrattori caotici/strani.
“L’operazione di stiramento e piegatura di un attrattore caotico elimina sistematicamente l’informazione iniziale e la sostituisce con informazione nuova: lo stiramento amplifica le indeterminazioni su piccola scala, la piegatura avvicina traiettorie molto lontane tra loro e cancella l’informazione su grande scala. Quindi gli attrattori caotici si comportano come una sorta di pompa, poiché portano a manifestazione macroscopica le fluttuazioni microscopiche. È chiaro allora che non può esistere alcuna soluzione esatta, alcuna scorciatoia per prevedere il futuro. Dopo un breve intervallo di tempo l’indeterminazione corrispondente alla misura iniziale ricopre tutto l’attrattore e la capacità di previsione è perduta: non vi è più alcun legame causale tra passato e futuro”.
Così J. P. Crutchfield descrive il cuore della dinamica caotica, e ognuno di noi muovendosi in una metropoli ha provato questa sensazione di mescolamento tra il livello microscopico della sua passeggiata e il livello macroscopico della struttura urbana, in una continua interazione tra l’individuale libero arbitrio e/o libera volontà con il corredo di informazioni locali, e la dinamica dell’intera città, che egli non conosce, ma però lo vincola, cosicché può capitargli di trovarsi all’improvviso imbottigliato in un ingorgo, oppure trascinato da una folla a causa di accadimenti avvenuti o in corso d’opera a molti chilometri di distanza, completamente fuori dal suo controllo di prossimità, sentendosi un turacciolo sballottato da correnti profonde e misteriose, fino allo spaesamento. La via della complessità può guidarci nel dipanare la matassa che dal caos ci conduca fino al mondo dell’autorganizzazione, meglio: il mondo dei fenomeni e/o sistemi emergenti autorganizzati.
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