Nella Valle del Sacco, cuore del Lazio, un caso che ricorda la Terra dei fuochi e l’Ilva di Taranto
testo di Carlo Ruggiero, foto di Matteo Di Giovanni
Questo è un viaggio sul fiume Sacco, uno dei fiumi più inquinati d’Italia. Cinque tappe lungo un corso d’acqua di 80 chilometri che bagna le ferite della gente che si ammala. E muore ogni giorno. Queste sono le voci di chi vive in questo territorio, tra fabbriche chimiche, immondezzai e fattorie. Questa è l’ennesima storia di una terra violentata e abbandonata, dopo esser stata adescata con un sogno effimero di ricchezza. A pochi chilometri da Roma, un caso che ricorda molto da vicino sia quello della Terra dei fuochi sia quello dell’Ilva di Taranto, ma che fa molto meno rumore. Il reportage prende spunto da Cattive acque. Storie dalla valle del Sacco, Round Robin editrice, un libro di Carlo Ruggiero in libreria dal 28 febbraio.
TAPPA 3 – CRISI, MONNEZZA E PUTTANE
La provincia di Frosinone è infestata da 122 discariche dismesse che da 30 anni rilasciano nel terreno sostanze tossiche. È l’altra faccia del disastro ambientale
5 aprile 2014 – È un lungo stradone. Quattro corsie, svincoli, guardrail, piazzole di sosta. Il sole che cala a picco e accende l’asfalto come un cerino. L’aria surriscaldata tremola, mentre l’erba lungo la carreggiata è tutta rinsecchita, gialla, stopposa. Il fiume scorre di lato, e non lo vedi mai. Perché su entrambi i lati ci sono enormi capannoni, grossi tir parcheggiati, centri commerciali e ipermercati. Siamo nella zona industriale di Frosinone, e questa strada si chiama Via Armando Vona, in onore del sindaco che negli anni Sessanta, grazie alla Cassa del Mezzogiorno e alla sapiente regia di Giulio Andreotti, diede l’impulso decisivo all’epopea industriale ciociara. In città, però, tutti la conoscono come l’Asse attrezzato, e tutti sanno che qui ci sono le puttane.
Per un trentennio, da queste parti, gli stabilimenti industriali e i centri commerciali sono spuntati come funghi. Ora sono quasi tutti malmessi, abbandonati, arrugginiti, con l’intonaco che cade a pezzi. È la crisi, bellezza. E qui la vedi tutta. “Qua, le uniche che non vanno in crisi sono loro” dice un giovane imprenditore indicando una prostituta che passeggia davanti ad una strana collina tutta ricoperta da teli color verde scuro e attraversata da ripidi tratturi. È alta una ventina di metri, larga almeno cinquanta, ed è un’enorme discarica. Una delle centinaia che punteggiano la provincia di Frosinone. Nascoste sotto quei teloni, infatti, ci sono tonnellate e tonnellate di rifiuti, come testimonia il tanfo insopportabile che ogni tanto si diffonde nell’aria calda. La ragazza forse non lo sa, ma quella collina è molto pericolosa, così come tutte le altre. Perché quella della gestione dei rifiuti è l’altra faccia del disastro ambientale della Valle del Sacco, forse la meno conosciuta.
Nel 2001, vennero individuati 122 mondezzai dismessi, generalmente di piccole o piccolissime dimensioni, sparsi sul territorio di 89 dei 91 comuni della provincia. Piccole bombe ambientali pronte ad esplodere da un momento all’altro. Le discariche vennero attivate o ampliate perlopiù negli anni Ottanta e Novanta, e da allora, giorno dopo giorno, hanno rilasciato nel suolo e nelle acque di falda grosse quantità di metalli pesanti, insieme ad altre sostanze pericolose, come gli “alifatici clorurati” e i “composti aromatici”. Per questo motivo, qualche anno dopo, la Ciociaria venne inserita nella lista dei “Siti di bonifica di interesse nazionale”. Prima di essere declassato, e prima ancora che venisse istituito il “Sin” della Valle del Sacco, dunque, qui c’era già un’emergenza ambientale. Oltre al Beta-Hch questa terra custodiva, e tuttora custodisce, altri veleni. In effetti, basta decidere di inoltrarsi per qualche centinaio di metri nella campagna, e magari sporcarsi un po’ le scarpe, per imbattersi in pozzanghere di percolato violaceo e puzzolente, che si dividono in numerosi rigagnoli prima di perdersi nei canali di irrigazione. I campi, arati a dovere, sono a pochi metri, a volte proprio di fianco.
“In quei terreni là, d’estate, ci coltivano granturco ed erba medica”, dicono quelli che vivono vicino alla discarica della Radicina, ad Anagni. Tutt’intorno carcasse d’auto, vecchie lavatrici, pezzi di lamiera arrugginita, eternit e buste di plastica. “Laggiù invece ci pascolano le bestie, come se questa robaccia non ci fosse – confermano – Ma ormai noi la roba che viene da queste parti non la mangiamo più”. Sarà. Ma non è che altrove la situazione sia molto migliore.
Oltre alle 122 già censite, in tutta la provincia ci sono altre centinaia di discariche abusive che custodiscono altre tonnellate di rifiuti, sia industriali che civili. È come se tutto questo territorio fosse stato considerato per anni un unico, enorme immondezzaio, nel quale riversare ogni tipo di spazzatura. Già la relazione dalla Commissione d’inchiesta parlamentare sulla gestione dei rifiuti nel Lazio del 1998 parlava di “fenomeni di illecito smaltimento”, che “rientrano in un modus operandi tipico delle organizzazioni criminali”. Fatti confermati dalle rivelazioni del capoclan Carmine Schiavone alla stessa commissione e solo recentemente rese pubbliche.
Eppure, quella delle discariche nella Valle non è solo una faccenda di camorra. È un problema molto più complesso, che riguarda l’intero ciclo di gestione dei rifiuti. Non è un caso se pure su questo fronte c’è un processo in corso. Nel marzo del 2009, i carabinieri sequestrarono l’inceneritore di Colleferro eseguendo 13 ordini di custodia cautelare. Lì dentro anziché il famoso Cdr (le ecoballe di rifiuti non pericolosi, ndr), finiva ogni tipo di immondizia, dalle lastre di alluminio ai copertoni delle auto. Per questo motivo 26 persone sono indagate. Dare una scorsa alle trascrizioni delle telefonate che si scambiavano fa accapponare la pelle. Tra di loro se lo dicevano chiaramente, senza peli sulla lingua, che nel forno ci finivano “gomme de macchina intere”, “un sacco de metallo”, “buste intere coi spazzoloni” e ogni tipo di “robaccia tossica”.
Dopo quasi quattro anni, durante i quali l’iter giudiziario è rimasto sostanzialmente bloccato all’udienza preliminare, l’11 gennaio 2013 al tribunale di Velletri sono infine arrivati i rinvii a giudizio per tutti gli imputati. Si tratta del secondo grande processo ambientale sulla Valle del Sacco, e ancora un volta riguarda Colleferro. È anche per questo che gli abitanti del versante sud della Valle, quello che ricade nella provincia di Frosinone, si sentono vittime di una sorta di “questione meridionale”. Quando glielo chiedi ti ripetono in maniera quasi ossessiva che “la Valle del Sacco non è solo Colleferro”, che “non c’è solo il Beta-Hch”. Anche perché, oltre alle discariche, ci sono quei furgoni che di notte vengono a scaricare direttamente intorno al fiume. “Lo fanno tutti i giorni – mastica amaro un abitante del versante meridionale – soprattutto d’inverno quando c’è la nebbia, o quando in tv trasmettono qualche partita importante. Così passano inosservati”.
Ma forse tutto questo la giovane prostituta non lo immagina nemmeno. Lei continua a passeggiare lenta sull’Asse attrezzato, proprio davanti alla discarica, in attesa di un nuovo cliente. Alle sue spalle il Sacco scorre placido, davanti a lei i capannoni abbandonati e i centri commerciali semivuoti. Ad un certo punto una berlina chiara mette la freccia, rallenta, si ferma. La prostituta si avvicina, tratta sul prezzo. Poi gira intorno alla macchina e monta dal lato del passeggero. La berlina parte sgommando, e scompare dietro quell’enorme collina coperta dai teli verde scuro.
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