Uno spettacolo teatrale sul cancro che ne esorcizza la tragicità. Una storia vera in scena al teatro Delfino di Milano
di Stefania Culurgioni
12 aprile 2014 – Avere poco più di vent’anni e ritrovarsi tra le mani un tumore. Uno di quelli cattivi, che colpiscono il sangue, con i medici che ti fanno capire neanche troppo velatamente che sei spacciata.
Trovarsi a fare i conti con questo pensiero insostenibile e incomprensibile, anche difficilmente traducibile a parole, che è la vita che finisce. Così presto. Così improvvisamente.
E poi la malattia che si manifesta picchiando duro, e le terapie in ospedale, e un anno di cure e il corpo che cambia, e l’umore da addomesticare, e gli amici a cui dirlo, e il corpo che fa male. Chissà com’è essere malati? Malati di tumore?
“Il ritratto della salute” è uno spettacolo portato in scena dalla giovanissima attrice Chiara Stoppa, scritto a quattro mani con il regista Marria Fabris e prodotto dalla Compagnia Atir della drammaturga Serena Sinigaglia. Andrà in scena fino al 13 aprile al teatro Delfino di Milano, in via Dalmazia.
È il racconto di una malattia, vista attraverso gli occhi di una ragazza giovane che racconta la sua esperienza, dicendoci con semplicità disarmante che il tumore non è un tabù, che delle terapie e della sofferenza si può anche parlare guardandosi negli occhi. Persino facendosi due risate.
«È un monologo – racconta l’attrice – perché l’ho intitolato così? Forse perché il ritratto della salute oggi sono io». La butta sul ridere, ma la strada è stata in salita. «È il racconto della mia storia vera – continua – perché per tre anni sono stata malata di tumore e mi avevano data per spacciata. Avevo un linfoma al sangue e invece poi, miracolosamente, sono guarita».
Lo spettacolo è nato da lì. Dall’incessante bisogno di sentirsi raccontare la sua vicenda dalle persone che la conoscevano, e anche da quelle che non la conoscevano ma che avevano sentito parlare di lei:
Dopo che sono guarita tantissime persone mi hanno cercato perché volevano sapere come avevo fatto mi sono ritrovata a parlare di me in continuazione, anche con chi non conoscevo, al bar, al parco, per strada. Tutti mi chiedevano la stessa cosa, come avevo fatto a guarire, come avevo affrontato la malattia. E io raccontavo e raccontavo, ma a tutti dicevo: guardate che io non ho la soluzione, non ho l’elisir di lunga vita, io posso solo dirti quello che è successo a me.
«Poi ho pensato: Io faccio l’attrice, a questo punto ci scrivo uno spettacolo almeno lo racconto una volta per tutte. Avevo bisogno di mettere per iscritto quelle parole, così con Mattia Fabris ci siamo chiusi in casa, in montagna, per due giorni e abbiamo buttato giù la prima stesura. Nei mesi successivi l’abbiamo rivista e poi abbiamo iniziato a portarla in scena». Dice, Chiara, che gli spettatori escono dal teatro con una luce diversa negli occhi, e che questa è la sua più grande soddisfazione.
Dice che le parole sono strumenti per rafforzarsi, per condividere un’esperienza, per non sentirsi soli, per ritrovare la speranza. «Vorrei prendervi per mano – aggiunge – Raccontarmi e raccontarvi. Vorrei farvi ridere. Anche nel pianto. Perché mi dissero che quando mi fossi ritrovata a ridere della malattia, allora, solo allora sarei stata sulla strada giusta per la guarigione. Lo ricordo, quel giorno, nel letto, iniziai a ridere perché stavo per morire. E risi così tanto che quando finii le lacrime stavo meglio. E allora potei riiniziare. A vivere».
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