Operare nei media senza più seguire la bussola dei risultati commerciali: la serie tv che ha fatto discutere e riflettere nel mondo del giornalismo
di Sabino Di Chio – Università degli Studi di Bari Aldo Moro – tratto da Iconocrazia
There’s gonna be a huge conversation: is government an instrument of good or is it every man for himself? Is there something bigger we want to reach for or is self-interest our basic resting pulse? You and I have a chance to be among the few people who can frame that debate.
(MacKenzie a Will, “The Newsroom”, 1×01)
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13 aprile 2014 – “Chi siamo noi per prendere queste decisioni? Siamo l’élite dei media”. Will McAvoy (Jeff Bridges) chiude con una frase altezzosa, l’editoriale di presentazione del nuovo corso di NewsNight, il notiziario via cavo che, fino a quella sera, ha condotto tra gli applausi da “biggest ratings whore in the business” quale si compiace di essere.
Nel mondo dei media orizzontali, fatto di interazioni, toni colloquiali, microfoni alle piazze e tweet in sovrimpressione, una proclamazione così inattuale si giustifica solo con l’annuncio di una conversione. Guidata dal produttore esecutivo MacKenzie McHale (Emily Mortimer), sinceramente radical e fragilmente chic, e dal direttore old school Charlie Skinner (Sam Waterstone), la nuova redazione ha deciso di farsi artefice di un’impresa imprudente: operare nei media senza seguirne l’intimo statuto commerciale.
Assunto Don Chisciotte a nume tutelare d’insana temerarietà, si torna a confezionare un telegiornale che orienti la comprensione dei telespettatori, sottraendosi alla dittatura pubblicitaria che obbliga a deformare i contenuti in nome del loro potenziale attrattivo.
È l’inizio della terza puntata di “The Newsroom” (HBO)(1), political drama creato dallo sceneggiatore premio Oscar Aaron Sorkin (“Codice d’Onore”, “Il Presidente-Una storia d’amore”, “The West Wing”, l’award per “The Social Network”) con l’ambizione di rivelare il lavorio interno alla macchina istituzionale dell’informazione. L’autore condensa in un monologo di pochi minuti la sua visione, l’impellenza che motiva l’opera e la colloca nel dibattito contemporaneo dalla parte di chi auspica la salvaguardia del ruolo sociale del giornalista.
Una responsabilità certo mal gestita, soffocata dal narcisismo o più spesso svenduta al miglior offerente al punto che, tra le impetuose correnti del populismo emerge anche l’ipotesi di sbarazzarsi di questa figura inutile se non dannosa per rimpiazzarla, in ossequio alle opposte tendenze del pubblico degli users, o con l’accesso diretto degli spettatori nei media o con showmen che adulino chi si accetta come pacifico consumatore di manipolazioni. In fondo, il giornalista è solo un’altra figura della mediazione da mandare in soffitta insieme a parlamentari, burocrati, insegnanti o militanti di partito, tutti colpevoli di rallentare la smisurata volontà di potenza di utenti e corporation. Sommerso dalla critica di spargere ipocrisia, “The Newsroom” instilla un dubbio nel selezionato pubblico HBO: il giornalismo va abolito o piuttosto rivendicato? Si è davvero più liberi abbandonati in pasto ai flussi di informazioni in piena solitudine?
Informare ed istruire
In fase di scrittura dei copioni, Sorkin ha intervistato decine di redattori di canali specializzati chiedendo loro le caratteristiche di un utopico notiziario ideale e cosa impedisse di mandarlo in onda. Le risposte facevano spesso riferimento ad una mancanza di coraggio di chi è nel cuore del settore a contrastare l’inerzia della mercificazione delle notizie(2), frutto di un circolo vizioso di dati di rilevazione e diktat aziendali a “dare alla gente quello che chiede”. È così che dalla scrivania dello studio dell’emittente Atlantis Cable News (il riferimento ad utopiche isole perdute nel nome non è casuale), Will usa tutto il coraggio che la fiction può garantire per chiedere scusa ai telespettatori “per non aver informato ed istruito con successo l’elettorato americano”.
“Sono il leader di un’industria che mistifica i risultati elettorali – spiega l’anchorman – ingigantisce le paure del terrorismo, alimenta le controversie e fallisce nel riferire gli spostamenti tettonici del Paese: dal collasso finanziario alla verità su quanto siamo forti”. La trappola dell’audience ha costretto una generazione di cronisti a competere nello stesso campo dei produttori di “Jersey Shore” interiorizzando le regole di quel gioco, ma da quel momento in poi, la redazione s’impegna a decidere in piena autonomia cosa trasmettere nella semplice convinzione che nulla è più importante in democrazia di un elettorato ben informato. Will disegna nitidamente il perimetro invalicabile della dignità del ruolo: “Non siamo camerieri in un ristorante impegnati a servire i racconti che ordinate, preparati nel modo in cui vi piace. Né siamo computer che dispensano solo dati, perché le notizie sono utili solo in un contesto di umanità. Non mi sforzerò di sottacere le opinioni personali. Mi sforzerò, invece, di proporvi opinioni autorevoli differenti dalle mie”.
Agente di mediazione tra l’avvenimento e la sfera pubblica, filtro dotato di specifiche competenze per migliorare l’intelligenza degli eventi, il giornalista è il depositario della responsabilità civile di dare spessore al dibattito pubblico, selezionando e immettendone i contenuti che reputa indispensabili affinché il numero più alto di lettori/ascoltatori/telespettatori possa esercitare appieno la propria cittadinanza, nel senso di aumentare il livello di consapevolezza del suo stare al mondo. Un compito che, se svolto con correttezza, presenta anche profili di impopolarità perché obbliga a seminare dubbi, a semplificare temi ostici o noiosi, costringe delle volte a “far mangiare le verdure” al pubblico, come sarcasticamente commenta il diffidente producer Don Keefer (Thomas Sadoski).
In fin dei conti, informare è un compito non molto diverso dall’istruire. Non a caso si tratta di parole molto simili: entrambe raccontano di un passaggio di conoscenze destinato a mutare la forma o la struttura di chi riceve. I dati trasferiti non devono passare invano: come una pennellata su tela o un colpo di scalpello sul marmo, essi hanno il compito di lasciare una traccia che modifichi il profilo di chi li accoglie. Istruttori e informatori condividono, anche se per via di un contributo a volte impercettibile, la responsabilità di modellare il punto di vista di chi ascolta. E come un artista o un architetto sanno bene, una forma e una struttura non s’improvvisano, la loro costruzione è guidata da un progetto frutto dell’immaginazione dell’autore che annuncia la sua visione, la direzione dei lavori, il senso.
È grande la quota di fiducia affidata ad insegnanti e giornalisti. Da loro ci si aspetta autorevolezza, dal latino augeo, accresco, cioè che svolgano il ruolo di lievito delle coscienze, i primi concentrati su solai e pilastri portanti, i secondi sulla facciata esterna, in battaglia permanente con il flusso della vita che, come le intemperie, aggredisce le strutture e alla lunga le erode, le arrugginisce, le consuma.
Istruire ed informare non sono operazioni individuali, lo insegna il finale di tutte le rivisitazioni sul tema di Pigmalione. Tra gli eccessi opposti del plagio e dell’indottrinamento, c’è una schiera di “manipolatori” autorizzati a farlo perché investiti del mandato collettivo a colmare una lacuna nella sagoma dell’ascoltatore, a dotarlo dei vocaboli necessari per essere pienamente parte di una comunità culturale o politica. A loro si riconosce il merito di padroneggiare il progetto meglio di altri, di aver studiato a lungo la rotta, di saperla indicare. Non esiste trasferimento di conoscenze se non si è d’accordo sull’evidenza di un’asimmetria di competenze, sulla differenza insopprimibile tra chi “sa” e chi no. L’insegnamento e l’informazione seguono la forza di gravità del piano inclinato che collega due altezze differenti, un’affermazione di supremazia temperata però dalla volontà redistributiva implicita nell’atto, ovvero appianare quel gap affinché la statura di chi riceve possa innalzarsi ogni giorno di più.
La frenesia che avvolge la professione giornalistica non deve ingannare sul senso del suo operare. Il giornalista lavora sull’istante (ne è lo storico, diceva Camus) ma per far bene il suo lavoro ha bisogno dell’intero spettro dei tempi. Scruta e sgrezza quel che arriva, esalta la novità perché come un sismografo deve restituire ogni scossa del terreno, ma il puro racconto del presente si poggia sulla padronanza del passato, unico elemento utile per discernere cosa è realmente “nuovo” tra ciò che è successo in giornata, e su un progetto di trasformazione futura del mondo, la scala di valori che presiede la scelta sovrana di estrarre dall’immane caos degli avvenimenti umani quel che è degno di essere reso noto, di accedere allo status di “notizia”.
Dietro questa scelta c’è l’esercizio di un potere che trae legittimazione da quella autorevolezza, il “quarto potere” che MacKenzie rivendica con forza nel pilot. Senza legittimazione, inseguendo pagine weberiane, il potere è nuda potenza, in questo caso venale condizionamento o subdola distrazione: l’insinuazione del gossip, l’intrattenimento sterile delle colonne di destra (sempre più centrali) delle testate web, l’iperbole dell’emotività, in sintesi l’inquinamento dello spazio pubblico. E senza potere, c’è l’anarchia.
Citizen Journalists o tifosi
“The Newsroom” sceglie di raccontare gli sforzi di un’élite che smette di accettare i compromessi che le permettono di rimanere sdraiata su rapporti di forza che la premiano perché intuisce il pericolo di lungo periodo: la dispersione dell’opinione pubblica, schiacciata dal lato degli editori dalle incomprimibili ragioni del mercato e dal lato del pubblico dall’ipertrofia degli individualismi. Due forze che si alleano nell’insofferenza per qualsiasi forma di mediazione consolidata, avvertita come un’ingerenza, un attentato alla trasparenza, una decelerazione del libero accesso all’autenticità delle esperienze.
Dopo la fine del giornalismo, il pubblico degli users imbocca, secondo l’indole, due strade alternative: o trasformarsi lui stesso in mezzo di comunicazione o accomodarsi in poltrona come consumatore di narrazioni. È un bivio che ricalca il dilemma dell’identità postmoderna, stretta tra individualizzazione (Beck 2000) e fondamentalismo, anomia o “identificazioni solide” (Recalcati 2010) in appartenenze non contrattabili basate su razza, etnia o religione.
Nel primo caso, il pubblico slega la sua ansia d’espressione facendosi strumento di un capillare dispositivo di scrittura dell’istante per mezzo di protesi digitali integrate al corpo (smartphone, videocamere, Google glass) che permettono di registrare in tempo reale suoni, immagini e umori della vita quotidiana nel suo svolgimento. La presa diretta perpetua si traduce in un profluvio di contenuti generati dagli utenti che, attraverso la spontaneità dell’estetica grezza e accidentale, ancorano la fruizione ad un emotività quasi tattile, sensoriale, una forma di significazione concreta di gran lunga preferita alla difficoltosa astrazione del ragionamento. Espressione di un dilettantismo orgoglioso che rifiuta la competenza come un ostacolo in una comunicazione che dev’essere quanto più immediatamente aderente al vissuto, l’informazione molecolare di internet fatta di tweet, post, video, ma anche dei cablogrammi di Wikileaks, offre la gratificante sensazione di rafforzare le capacità di apprensione della realtà perché colpisce con forza, in poco tempo e aggirando le censure. Permea come l’acqua e ferisce come una lama ma dietro il volto accettabile della denuncia, dietro lo scardinamento dei monopoli mediatici si nasconde il furore immobile di un metodo capace di creare gogne, di rinunciare alla verifica, di sottomettersi al demone del sensazionalismo per una manciata di views in più.
“Ogni consumatore è un potenziale produttore con l’intero mondo come potenziale pubblico” avverte Shirky (2009): è l’affresco di un mondo di individui che dei produttori condivide l’apparato ideologico della concorrenza, un popolo di editori braccio outsourcing della comunicazione-mondo che afferma se stessa mandando nelle strade milioni di telecamere a scandagliare ogni interazione, pagandoli non con un salario ma con la moneta dei like da spendere nel mercato competitivo della reputazione (Formenti 2011). Una somma di piccole fotografie dell’esistente che indignano, emozionano, intrattengono senza mai avere la forza di comporre una visione d’insieme che permetta di sottoporre a critica l’impalcatura che rende possibili ingiustizie e diseguaglianze.
Se i citizen journalists, però, motivati dall’autoaffermazione, rincorrono nelle strade la loro personale verità, dall’altro lato c’è un pubblico di consumatori di narrazioni che interrompe le ricerche per accontentarsi della verità più vicina ai loro gusti, azzerando la complessità in un comodo giaciglio fatto di certezze ferree e nemici mortali, offerti da un panorama informativo che per soddisfare il cliente accetta di colorarsi, di rinunciare anche solo alla pretesa dell’obiettività. “I sociologi ci dicono che il paese è polarizzato più che ai tempi della guerra civile – urla Will (1×01) – la gente non si limita a scegliere le notizie, adesso sceglie i fatti”. Come nel giornalismo sportivo si diffondono le telecronache da tifoso, così i maggiori gruppi editoriali mirano alla targettizzazione del pubblico, fidelizzandolo nel radicamento delle sue convinzioni, sedando i dubbi nell’estasi delle forzature e dello svuotamento delle parole. L’effetto è l’autismo di appartenenze parziali ma autosufficienti, che accettano la pluralità circostante in nome della sua irrilevanza.
Le all news Fox (destra) e Msnbc (sinistra), gli editoriali sciovinisti in radio di Rush Limbaugh (ultra repubblicano) sono negli Usa un buon esempio di retorica della chiusura ma anche in Italia, negli ultimi vent’anni, i media hanno riprodotto fedelmente lo schema bipolare della “scelta di campo” aprendo le porte girevoli tra direzioni di testate e seggi parlamentari e solleticando “comunità” di e/lettori verso culti personalistici o simmetriche avversioni intrise di moralismo. La targettizzazione spinge alla coazione al bilanciamento che obbliga la scaletta di un tg a farsi scaffale per ospitare le merci concorrenti, rinunciando ai doveri deontologici di sintesi e riscontro. MacKenzie chiede ai suoi collaboratori di porsi sempre una domanda: “Esistono davvero due posizioni in questa storia?”. Il giornalista non deve cadere nel tranello del pregiudizio d’imparzialità (“Se l’intero gruppo parlamentare repubblicano – spiega Will – andasse in Parlamento e proponesse una risoluzione affermando che la Terra è piatta il Times titolerebbe: Democratici e Repubblicani non si accordano sulla forma della Terra”, 1×02), sparendo dietro dosi di verità tagliate sui bilancini da uffici stampa che, sulla contrapposizione simmetrica di apparenze equivalenti nella loro artificialità, fondano la loro funzione politica.
L’insopportabile sanctimonia
Tra cultori dell’informazione fai-da-te e fan dell’informazione all inclusive, che fornisce notizie, opinioni e identità in pacchetto unico, si capisce la fredda accoglienza registrata dal serial presso molti commentatori, soprattutto online. La critica più comune è quella di ipocrisia, precisamente sanctimony, dal latino sanctimonia, elargire santità, spargerla ai quattro venti da un pulpito autocostruito, fare spettacolo della superiorità morale di chi “vuole spiegarti come cambia il mondo e non si accorge che il mondo sta cambiando”.
A scanso d’equivoci va detto che “The Newsroom” è davvero un prodotto ipocrita, dalla confezione pomposa, enfatica nei dialoghi e nella colonna sonora (la sigla vintage ne è un perfetto esempio), alla strategia narrativa didascalica nel sacrificare le trame personali o relazionali sull’altare del contenuto “politico” di fondo. L’accusa, però, muove dalla forma per arrivare alla sostanza: il bersaglio è la pretesa di Sorkin di contrabbandare la propria verità come assoluta, nel fingere imparzialità pontificando in nome dell’interesse generale (“These people exist to Tell Us What’s What” lamenta Maureen Ryan sull’Huff Post(3), “The Newsroom” would be a lot better if the main characters preached less and went back to reporting” secondo Alessandra Stanley sul New York Times)(4).
La serie, infatti, esalta la presupposta neutralità tecnica del giornalismo, scienza esatta del “riportare i fatti”, nonostante dalle battaglie di Will, presentato come un repubblicano moderato, emerga chiaramente una posizione politica, liberal in questo caso, al punto che la stessa puntata in cui si fa professione di devozione all’oggettività, si risolve in un attacco fitto e circostanziato alla demagogia del Tea Party colpevole di dirottare il Great Old Party verso derive violente e servili.
Se i citizen journalists producono migliaia di verità fluttuanti e i media polarizzati ne fanno convivere due (o tante quanti sono i gruppi di potere) indifferenti l’una con l’altra, per la redazione di NewsNight la verità è una sola, va solo trovata e riferita. I dialoghi serrati, marchio di fabbrica dei copioni fino al parossismo, sono uno strumento maieutico. Lo studio è pensato come un tribunale in cui l’anchorman disbosca da partigianerie, malafede e pregiudizi il quadro dell’evento fino alla nuda verità, un nocciolo duro di dati dotato dei crismi dell’incontrovertibilità.
La società contemporanea, però, sa fin troppo bene, senza dover scomodare Nietzche, che “i fatti non esistono ma solo le interpretazioni”. Vivere nella modernità riflessiva implica l’esperienza quotidiana dell’alterità ed un sempre maggior rispetto delle differenze ma anche il disincanto della consapevolezza dei meccanismi di mediazione simbolica, la coscienza dell’arbitrarietà del sistema di determinazioni che compone la cultura (Crespi 1979, 47). Per questo l’ipocrisia di “The Newsroom” appare utile, se non addirittura necessaria.
Perché l’unico modo per accettare la parzialità della propria verità senza naufragare nell’insignificanza del relativismo non è blindarla nella fedeltà da supporter ma agirla come una scelta che informi di sé l’esistenza e che non abbia paura almeno di “fingersi” principio universale, destinato prima o poi a prevalere sugli altri modelli attraverso il civile conflitto delle opinioni. Un desiderio “misurato” dell’Uno, versione riveduta e corretta di quel “desiderio radicale dell’Uno” che secondo Badiou ha caratterizzato il Novecento nei suoi antagonismi ma anche nelle sue tensioni ideali (2006, 76).
L’ipocrisia di “The Newsroom” aiuta a tener vivo il ricordo di quell’asimmetria tra autore e destinatario che consente la trasmissione di conoscenze perché, con esso, rilancia la necessità di ricomporre una profondità utopica e una comunità in vista della grande sfida tardo-moderna, quella che, nelle parole di Mackenzie, dovrà stabilire una volta per tutte “se le istituzioni sono uno strumento del bene o se ognuno combatte per sé. Se c’è qualcosa di più grande da raggiungere o l’interesse personale è il nostro impulso basilare” (1×01).
Tornare a credere nella propria verità come ad un “fatto”, senza derive fanatiche o fideistiche ma sottoponendo a verifica continua le convinzioni nella dialettica quotidiana per persuadere chi ci circonda serve a ricostruire il “contesto di umanità” in cui le notizie sono utili, citato da Will McAvoy nel suo editoriale. L’informazione da sola non serve se non puntella un punto di vista. Un punto di vista a che serve se non aspira a diventare totalità?
Bibliografia
Badiou A., Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006 (ed. or. 2005)
Beck U., La società del rischio, Carocci, Roma 2000 (ed. or. 1986)
Crespi F., Mediazione simbolica e società, Franco Angeli, Milano1982
Formenti C., Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011
Recalcati M., L’uomo senza inconscio, Cortina, Milano 2010
Shirky C., Uno per uno, tutti per tutti. Il potere di organizzare senza organizzare, Codice, Torino 2009
Sitografia
– Lacey R., “Aaron Sorkin Reveals Depth of ‘Newsroom’ Angst, Season 2 Reboot, A-List Consultants”, The Hollywood Reporter, 19/6/2013, (http://www.hollywoodreporter.com/news/aaron-sorkin-hbo-drama-newsroom-570176)
– Rabinovitz D., “Sorkin’s New Show: Pomp and Prattle”, The Wall Street Journal, 21/6/2012, (http://online.wsj.com/news/articles/
SB10001424052702304765304577480384040084296)
– Rayan M., “The Newsroom” Review: Aaron Sorkin’s New HBO Show Gets Almost Everything Wrong”, 19/6/2012,
(http://www.huffingtonpost.com/maureen-ryan/the-newsroom-review-aaron-sorkin-hbo_b_1609544.html)
– Springfield! Springfield!,
(http://www.springfieldspringfield.co.uk/episode_scripts.php?tv-show=the-newsroom) (scripts della serie).
– Stanley A., “So Sayeth the Anchorman”, The New York Times, 21/6/2011, (http://www.nytimes.com/2012/06/22/arts/television/the-newsroom-an-hbo-series-from-aaron-sorkin.html?pagewanted=all)
1) In Italia la serie è andata in onda su Rai 3 da ottobre a dicembre 2013con risultati travagliati, collocazione instabile e doppiaggio discutibile.