Non mangiatevi le parole

Tornano, le vecchie parole. E i significati non devono spaventare, perché sono, inevitabilmente, legati a dei contesti della contemporaneità. Ma dobbiamo uccidere uno dei pericoli più insidiosi, l’autocensura

 

di Angelo Miotto

 

13 aprile 2014 – C’è un rapporto di forza che si nutre dei rapporti che insistono nella comunità, legittimata o meno, in cui viviamo. Posso essere antagonista, ma subire quasi per osmosi le mode, le manie e le paure che agitano il nostro micromondo. Che è e rimane micro anche se sono connesso e posso spaziare o vedere fantastiche immagini di tutto il pianeta. Un micro che si stringe ancora di più, se vogliamo lanciare l’immaginazione in un’ipotesi che a molti gelerà il sangue nelle vene, di anche solo un giorno senza connessione internet, senza amici virtuali, senza cerchie, in un ritorno al passato che avrebbe bisogno di un nuovo training psicologico per farci trovare o riscoprire quello che per molti era una normale situazione di equilibrio e che per molti altri è un racconto mai sperimentato di un passato recente.

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Il rapporto di forza di oggi riguarda parole che non vivono più nel nostro linguaggio, ma che esistono. Sono le parole della riserva indiana, dove sono rimasti solo dei fonemi prigionieri di confini, spesso ubriacati dalle casse di liquore schifoso e di marca scadente che ci propina il cosiddetto Sistema. Ecco, per esempio, Sistema è già di per se stesso uno degli abitanti della riserva indiana, della tribù delle parole dimenticate ed emarginate. In ottima compagnia rispetto a quanto sta accadendo nel nostro tempo in divenire, quando nella contemporaneità tornano a vivere concetti che avevamo lasciato nei libri di storia, pur in forma diversa, ma con effetti molto simili.

La prima storia che riguarda queste parole la prendo da una stagione di musica contemporanea che si sta svolgendo a Milano, un esempio familiare perché è l’ensemble che ho contribuito a fondare e ad amministrare per tanti anni: Sentieri selvaggi. Il direttore artistico si chiama Carlo Boccadoro (tra l’altro è socio benefattore di Q Code Social Club) e ha deciso di raccogliere il nrillante suggerimento del violinista Piercarlo Sacco per intitolare la stagione musicale del 2014 con una frase che ha risvegliato questi pensieri: Fantasia al potere.

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Fantasia al potere, immaginazione al potere, slogan che immediatamente disegnano un’era, una situazione, un panorama sociologico e anche antropologico. Contestazione, voglia di rivoltare il mondo come un calzino, nuove prospettive e un panorama che lungi dal sembrare una retta all’infinito sembra quasi a portata di mano, non certo per le delusioni di chi scopre il mondo finito del Truman Show, semmai l’esatto contrario. Poche settimane fa’ presentando con Carlo la prima di Sentieri selvaggi all’Elfo Puccini di Milano ho sentito le parole che dicevo nel microfono di fronte al pubblico, che dietro un piazzato che ti spara negli occhi è come un grande corpo unico che respira e si muove e ti concede attenzione. Fantasia al potere. E mentre risuonava e parlavo i miei pensieri andavano all’attualità di uno slogan che è una chiave e una sfida, spogliata da sapori ideologici che sono rimasti nelle fotografie seppia o bianco e nero e che ritorna a suonare per il significato stesso delle parole, del loro accostamento.

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Un’altra storia, il 9 aprile:  su Publico.es c’è la notizia dell’autorità di controllo della Borsa spagnola che ci racconta che nel 2013 le imprese quotate che hanno proceduto al licenziamento di oltre 150.000 lavoratori hanno fatto utili e si sono spartite dividendi fra gli azionisti per 8,5 miliardi di euro. È quel meccansimo che la prima volta che incontri fai fatica a capire: società quotate che licenziano, e pensi allora a un problema di commesse o di mancati ricavi, ma che grazie a questi tagli sul capitale umano si avvantaggiano nel profitto per effetti positivi di Borsa, generando capitale, non più umano, ma fra pochi umani. La crisi c’è, la pagano i soliti e c’è anch chi si arricchisce. Questo si potrebbe anche rappresentare con un variopinto immaginario iconografico, che so, i denti di uno squalo, il feroce ghigno di un predatore, ma il nome che ha è semplicemente capitalismo finanziario, dove la parola capitalismo – che di fatto è il sistema che respiriamo da decine di anni a questa parte se pur nelle sue innumerevoli rappresentazioni – è una parola difficile da pronunciare con agio, perché ci fa sentire inadeguati, retrò, bollati ideologicamente, molto poco à la page rispetto a un contesto che è quello del nostro presente.

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Provavo la stessa sensazione di ritorno da un viaggio in Venezuela, il presidente Chavez era ancora vivo e vegeto, era il 2006. I suoi discorsi erano un continuo e ostinato citare “il Socialismo del XXI secolo”. La ricchezza del dibattito, la conoscenza che avevo ravvisato negli incontri anche fra gli strati sociali più umili della popolazione di Caracas, mi restituiva il senso nobile e alto di una parola che dopo qualche ora di viaggio in aereo, tornava nella riserva indiana a tracannarsi un brandy per finire sversa dentro una caverna fetida o un tepee malandato. Perché socialismo qui non si può più dire, oppure si potrebbe andar per strada e chiedere ai più giovani quali sentimenti evochi e quali sarebbero i fondamentali di una parola che nel Novecento ha vissuto una stagione così densa e di diversi significati.

Tornano, le vecchie parole. E i significati non devono spaventare, perché sono, inevitabilmente, legati a dei contesti della contemporaneità: tanto di meglio se le radici di una parola ci sono evidenti, tanto di guadagnato se la parola che serve incuriosisce al punto da spingere chi la incontra e la usa a studiare la sua storia, dall’etimo alle conseguenze sociali che ha prodotto, proprio per aver abitato i cavi orali e prima ancora il cuore e il cervello di tanti.

Immaginazione e fantasia, socialismo, capitalismo, rivolta, ribellione, conflitto, dissenso, lotta. C’è un lavoro di liberazione che dovrebbe riguardarci tutti, per spingere le nostre orecchie a riascoltare un suono che si è relegato all’antitarma e che invece pompa ancora sangue in quantità, vivace e potente.

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È lì che abita l’autocensura. Dentro un contesto in cui il perbenismo (borghese dovrei scrivere se non mi autocensurassi), spinge a cercare il moderatismo anche nel linguaggio, a vedere fantasmi scomodi del passato, ma utili da evocare, per reprimere una parte importante della nostra coscienza politica, quella che prende spunto ed entusiasmo dai concetti che sono significato di azioni che vivono a loro volta, in un gioco circolare, della storia e del presente del significato di slogan e parole stesse.

Partecipazione è tornata di moda, militanza no. Interessante, no?

Operaio e massa, concetti superati dalla storia, ma come ‘lavoratori’ oggi dice tutto e niente, coscienza di classe poi si perde in mille distinguo. Questo per dire che non tutti i termini riusciranno a uscire dalle scatole ordinate della memoria recente, ma che è azione necessaria cercare di riflettere e comprendere perché tante altre vengono usate in tono spregiativo, o usate come indicatori e parametri per misurare la democraticità del singolo pensiero. Nell’era social, per di più.

Certo, dire Nunca mas riporterà sempre alla storia drammatica dei desaparecidos e della macelleria dittatoriale latinamericana dagli anni Sessanta in poi. Ma dire redistribuzione o ragionare sul concetto del subalterno rispetto a nuovi schemi di potere e di controllo non potrà che far bene a tutti noi. Come se in una spunta ideale da un pannello di controllo non dovessimo far altro che dire ‘disabilita’ a quella casellina che si chiama Autocensura.


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