Deir Yassin: se la memoria cambia i nomi

Il 9 aprile 1948 gruppi armati ebraici massacrarono civili palestinesi innocenti scatenando la fuga degli abitanti dei villaggi, come si voleva fin dall’inizio

 

di Paola Caridi, tratto dal suo blog InvisibleArabs

 

14 aprile 2014 – A Deir Yassin ci sono stata, alcuni anni fà. Neanche tanti. Tre, forse quattro anni fa. Andai a fare una intervista sulla cosiddetta sindrome di Gerusalemme al Centro di Igiene Mentale comunale. È la sindrome che sembra colpisca chi non riesce a resistere alla carica mistica della Città Santa. Gli psichiatri sono divisi sulla possibilità che si tratti di una sindrome psichica precisa, o non sia piuttosto l’emergere di problemi precedenti alla visita di Gerusalemme.

L’argomento, a dire la verità, non era in cima ai miei pensieri. Ma mi ci applicai, soprattutto perché la sindrome di Gerusalemme era uno strumento per andare a vedere altro. A vedere Deir Yassin, il villaggio palestinese simbolo della nakba del 1948 e luogo di un eccidio spesso poco ricordato. Fu per quel massacro compiuto dai membri dell’Irgun e della banda Stern contro civili palestinesi inermi il 9 aprile 1948 che la gente dei villaggi attorno a Gerusalemme scappò, per il terrore di subire la stessa sorte.

Era proprio quello anche l’obiettivo delle bande paramilitari sioniste, concordano tutti gli storici, ivi compresi gli storici revisionisti israeliani. Colpire Deir Yassin significava farne un esempio. E poi Deir Yassin era fondamentale dal punto di vista militare. Basta andarci per capire la sua importanza. La strada per Tel Aviv, per il mare, passa lì vicino. Deir Yassin fa parte della cintura di villaggi attorno a Gerusalemme che alla città fornivano cibo fresco.

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A così tanti anni di distanza dal massacro di Deir Yassin, volevo andarlo a vedere, quel posto così carico del senso del conflitto israelo-palestinese. Ma non andavo a vedere rovine. Andavo a visitare un villaggio ancora in piedi. Perfettamente conservato, ma nascosto a (quasi) tutti. E leggendo queste pagine di Gerusalemme senza Dio capirete perché (l’illustrazione di Deir Yassin è di JoeVito Nuccio).

Il manicomio di Gerusalemme è il villaggio di Deir Yassin, le sue casette, la grata che chiude quella che un tempo era una stalla, gli archi delle finestre, le scalette segnate dalle ringhiere in ferro battuto, i tetti piani della tradizione araba, le pietre sbozzate che ricoprono i muri esterni. E poi i vicoli, stretti, in salita lungo il pendio sul quale si dispiegava il villaggio, ben visibile nella sua pianta urbana anche percorrendo il viale che lo circonda, lungo il quale, nel corso dei decenni, sono state costruite scuole su scuole.

Grida di bambini e silenzio, pini, campetti di calcio, poche macchine che passano. Kfar Shaul, il centro d’igiene mentale, sembrerebbe a prima vista un luogo di pace. Deir Yassin, a immaginarlo, doveva essere il tipico villaggio contadino, sorto in cima a un monte, lungo un pendio dolce ma pietroso come pietrosi sono i pendii che circondano Gerusalemme verso nord. Difficile immaginare qualcosa di terribile in un luogo così ameno, e nello stesso tempo anonimo. Gerusalemme, però, nasconde spesso all’interno della sua normalità la stratificazione dei lutti,delle storie, delle memorie, delle diverse identità dei suoi protagonisti. Così è per Musrara, per Malcha, per la Città Vecchia, per i due templi divenuti Spianata e Moschee. E per Deir Yassin, ora Kfar Shaul.

Per scoprire il passato che non passa, tra le pieghe del presente, basta attraversare lo stradone su cui s’affaccia il centro di igiene mentale, percorrere meno di duecento metri, e sporgersi al di là di un muretto di pietra, circondato da un edificio a destra e da una lamiera su cui è annunciata la costruzione di un altro centro residenziale sostenuto dalla comunità ebraica del Venezuela. Tra l’uno e l’altra, c’è il muretto che delimita qualche albero su di un pendio, tra pietre e – soprattutto – immondizia buttata qua e là. Ad aguzzare bene la vista, si scorgono alcune sepolture musulmane. Le lapidi sono non curate, molte rotte, alcune tombe scoperchiate. Accanto, qualche sacchetto della spazzatura, una pentola d’alluminio, bottiglie e scatolette. Era il cimitero di Deir Yassin, di cui il passante non sa nulla perché nulla è scritto sul muretto di pietra.
Poco dopo la fine della guerra, il villaggio palestinese non venne distrutto. Divenne, anzi, un centro di accoglienza della nuova immigrazione che stava arrivando in massa dall’Europa. Ebrei sfuggiti alle persecuzioni naziste e fasciste, sopravvissuti all’Olocausto, gli immigrati vennero suddivisi tra i diversi centri aperti in Israele per poter ricominciare una nuova vita. Uno di questi centri fu collocato in un luogo che però, per i palestinesi, significava altro. Significava persecuzione. E a protestare contro il nuovo uso di Deir Yassin, contro il suo ripopolamento, furono anche intellettuali ebrei del calibro di Martin Buber.

“L’episodio di Deir Yassin,” scrisse Buber assieme ad Akiva Ernst Simon al padre della patria israeliana David Ben Gurion, “è una grave macchia sull’onore del popolo ebraico. […] È meglio per i tempi a venire lasciare la terra di Deir Yassin incolta e le case di Deir Yassin inabitate, piuttosto che compiere un’azione il cui valore simbolico supera i suoi benefici pratici.” La richiesta, insomma, era quella di rendere il villaggio palestinese un memento perché “avvertisse il nostro popolo che nessuna giustificazione pratica o militare potrà mai avallare omicidi tanto efferati”.

La richiesta di Buber e di Simon a David Ben Gurion rimase inascoltata. Deir Yassin fu ripopolato in un primo momento come centro di accoglienza, e tutta l’area attorno ribattezzata con il nome di quello che oggi è un popo- loso quartiere a impronta religiosa – Givat Shaul –, che nella vita degli israeliani non ha più nulla del vecchio villaggio. Salvo per quello che c’è oltre un’anonima cancellata bianca, di quelle a scorrimento per far entrare le macchine.

Oltre quella barriera, oltre il gabbiotto del personale della sicurezza, il villaggio di Deir Yassin appare sorprendentemente fermo nel tempo, salvato nella sua integrità urbanistica e architettonica dalla decisione di aprire, proprio tra quei vicoli e in quelle casette di pietra, il manicomio di Gerusalemme. Un centro di salute mentale, il luogo più nascosto per eccellenza, velato allo sguardo del pubblico, confinato.


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