La storia di Abdul, bracciante del Burkina Faso che è diventato contadino biologico nelle campagne lucane. A sostenerlo, una rete di economia solidale, che promuove un gruppo d’acquisto di “rosso da salsa” per la stagione 2014 -dedicato a consumatori critici della Basilicata e delle regioni vicine-. Per il pre-ordine c’è tempo fino al 15 aprile
di Luca Martinelli, Altreconomia
14 aprile 2014 – Abdul ha 28 anni e un orto di mezzo ettaro, dove ha piantato pomodori San Marzano ma anche melanzane, sedani, prezzemolo, insalate e fagioli. Abdul, che è nato in Burkina Faso ed è arrivato in Italia prima di compiere diciotto anni, da tre vive a Boreano, un borgo di case diroccate nelle campagne di Venosa, in provincia di Potenza.
Siamo al centro del triangolo del pomodoro da industria, che ha gli altri vertici a Lavello a Palazzo San Gervaso: fino allo scorso anno, come tutti, anche Abdul lavorava come bracciante, ma adesso è un contadino che fa agricoltura biologica.
E i suoi sono pomodori solidali: cinque associazioni hanno promosso il primo gruppo d’acquisto “solidale e collettivo di pomodori da salsa e da pelati a Venosa” racconta Mimmo Perrotta. Ricercatore all’Università di Bergamo, dove si occupa di movimenti migratori, Mimmo -abbonato ad Ae- è originario della città che ha dato i natali a Orazio. Oggi vive a Bologna, dov’è una delle anime dell’associazione GasBo: «il primo esperimento lo abbiamo fatto nell’estate dello scorso anno -racconta Mimmo-: un concerto e un dibattito in piazza, e poi, per chi voleva, la possibilità di fare la passata tutti insieme, mutuando un’esperienza che viene dal mondo dei gruppi d’acquisto solidali».
Con quell’iniziativa, alla fine dell’estate 2012 si accendeva la luce su un problema: Boreano, a sei chilometri del centro di Venosa, d’estate diventa un ghetto. Il borgo è figlio di un progetto fallito -sorto negli anni Cinquanta, in seguito alla riforma agraria, avrebbe dovuto ospitare le famiglie dei contadini che conquistavano l’accesso alla terra-, e oggi le case sparse nelle campagne ospitano centinaia di immigrati, moltissimi dei quali burkinabè.
Invisibili i più, al pari del cartello (scolorito) che segnala il bivio per Boreano: c’è scritto Boreano 2, «che per molti migranti è diventato il nome del luogo, una sorta di Milano 2» raccontano Sergio Dileo ed Enzo Briscese, che mi accompagnano a casa di Abdul in una domenica di metà luglio. A Venosa fanno parte dell’associazione culturale “Il dubbio”, tra i promotori dell’iniziativa “pomodoro solidale” e del presidio della rete Campagne in lotta (campagneinlotta.org), che fino al 30 settembre porterà a Boreano volontari da tutta Italia, per promuovere corsi di italiano, una ciclofficina (senza un mezzo per spostarsi, i migranti sono tagliati fuori da ogni contatto esterno) e l’intrattenimento, anche attraverso la musica (Sergio, che vive a Roma, è musicista).
Nessuno sapeva, nessuno vedeva, raccontano, anche se alcune delle case di Boreano sono proprio sotto la Bradanica, la strada statale che collega Foggia a Matera: «Si è persa un po’ di pìetas» sottolinea Enzo, che di formazione è uno storico.
In Paese c’è anche chi ha perso la memoria del proprio passato: nel 2006, i ragazzi de “Il dubbio”, insieme a Mimmo, hanno ricostruito in un documentario La morte di Girasole una storia di lotte bracciantili, uno “sciopero al rovescio” che portò, il 13 gennaio 1956, alla morte di uno dei manifestanti. «Storicamente, i braccianti hanno ottenuto qualcosa solo dove e quando ci sono state forti mobilitazioni. Oggi -spiega Mimmo- prevale invece una logica di intervento umanitario: la Caritas e la Provincia portano acqua, cibo e vestiti, ma questo non intacca la situazione di sfruttamento».
Per questo il campo di Abdul, che dovrebbe produrre 60 quintali di San Marzano, diventa una vetrina. L’orto è una striscia verde e luminosa. I pomodori sono ancora verdi. Stamani ha fatto un acquazzone, e Abdul ha dovuto lasciare a metà i lavori che stava facendo, per liberare i filari dalle erbacce. Tutto a mano. Confessa che è la prima volta che non usa fertilizzanti e diserbanti: «Chissà come vengono i pomodori. Ho messo giù duemila piante». Se l’esperimento riuscirà, il prossimo anno potrà anche raddoppiare l’orto: «Franco è disposto a lasciarmi più terra».
Franco è il suo datore di lavoro. E lui ad aver messo a disposizione di Abdul il campo e la casa, che a differenza delle altre sparse nella campagna di Boreano ha luce ed acqua. «Qui ho un contratto a tempo determinato, come guardiano» racconta Abdul, che prima di scendere in Basilicata ha lavorato per 4 anni a Lecco, come operaio. Sul retro del fabbricato rurale ci sono una dozzina di capre in un container.
Quando lo incontriamo siamo in pieno Ramadan. La raccolta dei pomodori inizierà tra un mese, ma l’unica stanza della casa è occupata da sei o sette letti, dove sono distesi altrettanti connazionali di Abdul. Lui qui è l’unico stanziale, e oltre ai pomodori ha sempre fatto anche la raccolta delle olive, la vendemmia: «Noi burkinabè siamo oltre un centinaio, e siamo la nazionalità più presente qui a Boreano. Poi ci sono i ghanesi, una ventina».
Molti di loro, quest’estate, rischiano di non trovare lavoro: «Chi tradizionalmente metteva 50 ettari, quest’anno ne ha piantati 25. Il pezzo del ‘cassone’ è destinato a scendere» spiega Abdul. Se ci aggiungiamo la fine dell’“emergenza Nord Africa” e la crisi, il quadro non è roseo: a Rignano Garganico, nel foggiano, a luglio ci sono già gli stessi migranti che l’anno scorso c’erano ad agosto, durante il picco della raccolta.
Le voci che circolano parlano di una paga di 2,5 euro a cassone. In ogni cassone stanno 350 chili di pomodori. Ed è impossibile raccoglierne più di una dozzina al giorno. «Franco me lo ha detto -confida Abudl-: “Concentrati sul tuo campo. Se possibile, se necessario, non andare nemmeno a lavorare a cottimo, come bracciante”».
Il prezzo dei pomodori solidali è fissato in 75 centesimi al cassone: «Lo abbiamo deciso con Mimmo», racconta Abdul. Settanta centesimi resteranno a lui. Con gli altri 5 verranno finanziate le azioni di solidarietà con i migranti.
Al momento sono stati pre-acquistati 24 dei 60 quintali che Abdul conta di produrre, e il suo “lavoro” vale in tutto 4.500 euro. «È un’economia piccolissima, ma il nostro obiettivo per quest’anno è quello di sensibilizzare la popolazione -spiega Perrotta-, di dir loro ‘Guardate che c’è un problema, e non è solo quello del lavoro sfruttato’. L’Italia è il terzo produttore mondiale di pomodoro da conserva, e questo è un prodotto economicamente ancora vantaggioso. Non è Abdul che cambierà la filiera, ma questa filiera agricola in qualche modo deve cambiare. Perché la raccolta manuale è possibile solo a quei prezzi» spiega Perrotta, vestendo i panni del ricercatore universitario impegnato in un’analisi comparativa tra le aree di produzione della Pianura padana e quelle dell’area tra Foggia e Potenza.
L’accordo sul prezzo per la “campagna 2013” è stato raggiunto nel giugno di quest’anno. Si parla di 90-100 euro la tonnellata, ma non c’è niente di scritto. «Dovremmo ripensare tutta la filiera: gli agricoltori dovrebbero ricevere un pagamento maggiore dalle industrie conserviere; e queste ultime, a loro volta, dalla grande distribuzione organizzata» conclude Perrotta. È qui che entra in gioco il cittadino, che può scegliere se essere consumatore responsabile, e solidale.
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