Nella Valle del Sacco, cuore del Lazio, un caso che ricorda la Terra dei fuochi e l’Ilva di Taranto
testo di Carlo Ruggiero, foto di Matteo Di Giovanni
Questo è un viaggio sul fiume Sacco, uno dei fiumi più inquinati d’Italia. Cinque tappe lungo un corso d’acqua di 80 chilometri che bagna le ferite della gente che si ammala. E muore ogni giorno. Queste sono le voci di chi vive in questo territorio, tra fabbriche chimiche, immondezzai e fattorie. Questa è l’ennesima storia di una terra violentata e abbandonata, dopo esser stata adescata con un sogno effimero di ricchezza. A pochi chilometri da Roma, un caso che ricorda molto da vicino sia quello della Terra dei fuochi sia quello dell’Ilva di Taranto, ma che fa molto meno rumore. Il reportage prende spunto da Cattive acque. Storie dalla valle del Sacco, Round Robin editrice, un libro di Carlo Ruggiero in libreria dal 28 febbraio.
TAPPA 4 – CECCANO. IL VECCHIO FAGGIO E LA PISTA DA SNOWBOARD
Storia dell’ennesimo progetto nato per sfruttare la Valle del Sacco. Un bosco in pericolo, la reazione di cittadini e associazioni
di Carlo Ruggiero
14 aprile 2014 – Il treno fischia a lungo sulle rotaie, prima di fermarsi del tutto e rigurgitare sulla banchina una miriade di pendolari. Sono tanti, perlopiù silenziosi, e camminano in fretta, a testa bassa. È come se seguissero ancora un percorso preciso, un solco obbligato, altri binari.
Il fiume è solo una manciata di metri più in là. Si snoda sinuoso alle pendici del paese vecchio, che per un po’ riesce anche a tenerlo a distanza, ma poi non resiste alla tentazione e lo abbraccia stretto, con i suoi ponti e i terrapieni in cemento grigio. Il Sacco scorre proprio dietro le rotaie, oltre i lividi e diroccati stabilimenti del vecchio saponificio.
Accanto alla scritta “Ceccano” del cartello delle Ferrovie, c’è l’ingresso alla sede del “Centro studi Tolerus”. Il dialetto ancora se lo ricorda che quello è il vecchio nome latino del Sacco. In campagna ne trovi parecchi che continuano a chiamarlo con affetto “Tollero”. Ma Tolerus è anche il nome di un’associazione che si occupa di ambiente, e che nel 2005, grazie ad un accordo con le Ferrovie dello Stato, ha preso in gestione questa palazzina. Ora al secondo piano ci sono una biblioteca, una sala convegni, un laboratorio, una pinacoteca, una sala multimediale e la segreteria dell’associazione.
Oltre la finestra, l’alta ciminiera in mattoncini rossi dell’Annunziata si staglia sul caseggiato fitto del centro storico. Per decenni è stata uno dei più grossi saponifici d’Italia.
Qui si producevano le saponette Scala, quelle che per oltre un secolo le nonne hanno sfregato con insospettabile energia sui lavatoi di pietra delle fontane. Poi lo stabilimento ha chiuso i battenti, ma la sua carcassa di cemento è rimasta qui. Enorme, derelitta e muta. Quando il vento tira a favore, il profumo dolce del sapone di Marsiglia s’alza ancora da quelle macerie, si spande tutt’intorno e sembra quasi trascinarti indietro nel tempo.
Qualche chilometro più in là, invece, c’è il bosco Faito. Quando ne parlano a quelli della Tolerus s’illuminano gli occhi: 336 ettari di vegetazione fittissima, una macchia scura, quasi circolare, intrappolata tra i capannoni della zona industriale di Frosinone e Ceccano, l’autostrada e il corso del Sacco. Nient’altro che un bosco, quindi, ma un bosco speciale, perché è stato teatro di una storia a lieto fine. Una delle pochissime da queste parti.
Dal 1939 quella macchia è di proprietà. In piena guerra, la Bpd ci costruì una polveriera da 80 ettari, nascosta tra gli alberi e quindi difficile da stanare per i bombardieri alleati. A guerra finita, l’azienda trasferì buona parte degli impianti di produzione al Nord Italia o a Colleferro, e nei capannoni tra le querce non rimase quasi niente.
L’area, però, restò off limits per decenni, tanto che durante la prima Guerra del Golfo venne addirittura militarizzata perché considerata un possibile obiettivo sensibile, alla stregua dei ministeri della Difesa e dell’Interno. Ceccano e il suo bosco non erano mai stati così lontani.
Nel 2001, quando venne alla luce l’ennesimo ambizioso disegno: una colata di cemento da un milione e trecentomila metri cubi. Una cordata di imprenditori aveva infatti deciso di comprare il bosco dalla Bpd per dare vita ad un “polo turistico integrato”. Il progetto prevedeva diciassette ettari di strutture commerciali e oltre ventimila posti auto. L’attrazione più importante sarebbe stata la “Sky-slope”, la prima pista di neve artificiale per snowboard d’Europa. Nelle stime dei costruttori, l’impianto avrebbe portato in Ciociaria milioni di visitatori e oltre 3.700 posti di lavoro. Allettati dalla piena occupazione, comune, provincia, Sviluppo Lazio e regione s’erano già detti d’accordo. Chissà se qualcuno già sapeva, come ha poi rivelato il rapporto Ecomafie 2006 di Legambiente, che dietro quella cordata c’erano in realtà anche soggetti vicini a organizzazioni criminali riconducibili alla Banda della Magliana.
In ogni caso, le ruspe stavano per partire, e il Bosco Faito aveva le ore contate. Stavolta, però, la reazione della popolazione fu istantanea e decisa, anche grazie al contributo dell’associazione Tolerus. Venne subito costituto un comitato di cittadini, che successivamente fu affiancato da un coordinamento provinciale delle associazioni ambientaliste. Seguirono cinque anni febbrili, fatti di studio, ricerca sul campo, convegni, manifestazioni e incontri.
Fu grazie a quelle ricerche che si scoprì che il Bosco Faito è in realtà un relitto naturale antichissimo, forse l’ultimo lembo rimasto di un’originaria “foresta planiziale”. Ma c’è di più. Quel fitto intrico di alberi ha anche una straordinaria particolarità: tra le querce, i cerri e i farnetti, ogni tanto spunta un faggio. Sembrerebbe una cosa da nulla, sennonché qui i faggi non dovrebbero proprio esserci.
Come scrive un geobotanico dell’Università di Camerino, ci troviamo di fronte a una “emergenza botanica atipica di altissimo valore naturalistico”.
Proprio al centro del bosco, tra l’altro, c’è un vecchio faggio. È un esemplare monumentale, con la chioma imponente e le radici che si estendono per decine e decine di metri, dentro e fuori dal terreno. Quell’albero, così imponente e fiero della sua diversità, divenne ben presto il simbolo dell’intera battaglia ambientalista. E alla fine quella battaglia fu vinta: l’11 ottobre 2005 la giunta regionale annullò il via libera alla costruzione del centro turistico. Dopo quattro anni l’intera zona venne trasformata in un’area naturale protetta, quindi inviolabile. L’improbabile pista di neve artificiale, così, non ha mai visto la luce.
Mentre il venerabile faggio resta ancora là, e continua a crescere noncurante del fatto di essere fuori posto, un imbucato, una specie di clandestino.
Per raggiungerlo bisogna ancora avanzare tra tronchi, sassi e foglie. Bisogna sporcarsi le scarpe e graffiarsi gli stinchi. Fuori i capannoni industriali, dentro piante a perdita d’occhio e odore di erba bagnata e di funghi. Se ci si inoltra dentro la boscaglia ancora un altro po’, però, ci si imbatte di nuovo nei capannoni. Sono quelli abbandonati dalla Snia-Bpd.
Stanno ancora là, vuoti e cadenti, circondati dal filo spinato. Non sono nient’altro che relitti industriali come ce ne sono tanti da queste parti. Solo che questi stanno ben nascosti nel cuore pulsante di un altro relitto. Un reperto ben più antico, quello di una primitiva foresta dimenticata dall’uomo e dalla modernità. Il Bosco Faito è davvero una scoperta continua, uno strano gioco di scatole cinesi. Dietro ogni porta ne trovi sempre un’altra, e poi un’altra ancora. È suggestivo e allo stesso tempo snervante. Un po’ come tutta la Valle del Sacco.
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