[note color=”000000″] Sono passati almeno 10 anni dall’uscita di ognuno dei film che rivisiteremo in questo spazio, eppure, nel bene o nel male, nulla pare essere cambiato. Pare che le tematiche siano più attuali del previsto. Dunque, si ripropongono, proprio come i peperoni. Speriamo solo di digerirli il prima possibile. [/note] [author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/07/Schermata-2013-07-12-alle-14.20.02.png[/author_image] [author_info]Alice Bellini. Scrittrice, si laurea in cinematografia tra Londra e New York. Non è una critica di nulla, ma le piace dire la sua, sapendo che, comunque, la risposta a tutto è inevitabilmente 42.[/author_info] [/author]
16 aprile 2014 – Il bello di lavorare in una redazione come quella di Q Code Mag è che, potendo scegliere cosa scrivere e come scriverlo, senza imposizioni, censure e commissioni, la fucina delle idee è sempre in moto e spesso un articolo tira l’altro. Ci si stuzzica vicendevolmente, ci si lanciano suggestioni, ci si informa e ci si ispira l’un l’altro. Liberamente. E con mente libera.
Sì, avete letto bene, ho usato proprio la parola lavoro, anche se nessuno ci paga per fare tutto questo. Ma un proverbio dice che il lavoro nobilita l’uomo. E allora, tra l’impiego mal pagato e umiliante, con orari allucinanti e sfruttamento della manodopera, e questo, non pagato ma strabordante di positività, rispetto e miglioramento, c’è da chiedersi quale dei due nobiliti per davvero e quale, dunque, meriti realmente di essere chiamato tale.
Nell’avvicinarmi a questo tema, non voglio insultare la necessità, che ormai è una difficoltà, di moltissime persone di arrivare a fine mese, ma semplicemente riflettere su come questa condizione di necessità/difficoltà abbia sconvolto il concetto di lavoro, soprattutto rispetto ai nuovi lavoratori, ovvero la mia generazione. Da agente arricchente e nobilitante, fucina di nuove idee, che stimola e insegna, mantenendo vivo l’intelletto, è tramutato in un sacrificio degradante e umiliante, che mira solo a mantenere vivo lo stomaco, nell’incertezza del domani e nella totale alienazione dell’individuo, lontano da nuove idee ed iniziative rigogliose, lontano dal futuro e dalla speranza.
Di lavoro ha parlato proprio Cora Ranci la scorsa settimana, in un intervento di spicco, ricco di spunti di riflessione da non perdere. E ho trovato molto interessante come, a presentare le sue parole, abbia scelto una delle immagini più famose di uno dei gioielli più preziosi e importanti della storia del cinema.
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Nel 1936, quelli rappresentati nella sua pellicola erano per Charlie Chaplin Tempi Moderni. La Grande Depressione era pura attualità. L’invasione delle macchine era ormai avvenuta. Il lavoro teneva conto solo del profitto. E l’uomo altrettanto. In un inversione di ruolo in cui l’umano era asservito a economia e società, e non il contrario. A quasi un secolo di distanza, quei tempi continuano ad esserlo, moderni, forse ancora più realistici d’allora, nella loro versione 2.0, ancora più esasperati e più esasperanti.
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Inglobati dalla necessità di campare invece che di vivere, e di mandare avanti macchine che invece dovrebbero mandare avanti noi, cosa significhi felicità è qualcosa di frainteso, come anche il concetto di lavoro è ormai snaturato, avendo acquisito le fattezze dell’asservimento e avendo abbandonato quelle della possibilità: possibilià di essere felici, non perché ricchi e opulenti, ma perché rispettati e arricchiti, liberi di spaziare con la mente e dare vita a nuove realtà, altrettanto rispettose e arricchenti.
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Oggi come nel 1936 ci ritroviamo ancora una volta, ormai sfiniti da una società meccanica fondata su sfruttamento, forze armate e sopravvivenza, a camminare lungo una strada che non si sa dove porterà, ma che almeno detiene la possibilità di un cambiamento, di un nuovo giorno, che sta a noi decidere come sfruttare. Ci incoraggiamo a vicenda a sorridere, ci imponiamo di farci forza. E forse questa è la cosa più bella. La capacità di avvicinarsi e fare gruppo. Mettere insieme le teste e le forze. Ispirarsi a vicenda. Riappropriarsi dei veri concetti di lavoro e felicità, o almeno provarci. Aspirare ad una vita più democratica, più arricchente, più dignitosa. In cui l’uomo e non le macchine abbia la precedenza. In cui la nobiltà d’animo e non il profitto venga al primo posto. In cui il 1936 non sia più un tempo moderno e attuale, ma obsoleto e superato – in meglio.
Non voglio insultare la necessità e la difficoltà di arrivare a fine mese, ma finché la si accetterà, finché noi che siamo ancora in tempo, noi nuovi lavoratori non c’impunteremo per cambiare le cose, per avere il diritto di lavorare, invece che quello di essere sfruttati senza condizioni, allora non solo non ci sarà mai nessun cambiamento, ma non ci sarà davvero più lavoro – e non solo per motivi di disoccupazione.
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