Calcio e cultura: per molti incompatibili, ma è infinito il numero di grandi intellettuali che ardevano d’amore per il pallone
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di Christian Elia
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17 aprile 2014 – Il 5 aprile scorso, la Repubblica ha pubblicato una bella intervista di Guido Andruetto a Ziggy Marley, il più noto degli innumerevoli figli del divino Bob. Su un tema particolare: la passione del vate del reggae per il calcio.
L’ennesimo esempio, noto in questo caso, di come di pallone ardono cuori insospettabili. Almeno per coloro che non riescono proprio a liberarsi da uno stereotipo: calcio e cultura sono mondi che non possono abitarsi a vicenda.
Non è vero, non lo è stato mai, ma lo stereotipo è come un mediano tignoso, che si incolla alle caviglie del fantasista avversario, seguendolo anche sotto la doccia. Difficile superarlo, ostico liberarsene. Eppure alla fine, il grande fuoriclasse, uno spiraglio lo trova sempre. Perché i grandi, vedono spazi dove i comuni mediani vedono solo certezze.
Tre foto. Con queste ho deciso di raccontare la pochezza di questo stereotipo, pur così difficile da superare una volta per tutte. La prima, dovuta, al grande Bob Marley. “Se non fossi diventato un cantante, sarei stato un calciatore. O un rivoluzionario. Il calcio significa libertà, creatività. Significa dare libero sfogo alla propria ispirazione”. Questo quello che il grande musicista pensava, che si traduceva in infinite partite, tra familiari e musicisti, in tour come a casa in Giamaica.
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Nel luglio 1977, Marley si ferì all’alluce. Lui stesso era convinto di essersela procurata durante una partita di calcio. Durante un altro incontro, perse l’unghia dello stesso alluce e arrivò la drammatica sentenza: melanoma. Morì l’11 maggio 1981 e nella sua tomba non mancò un pallone da calcio.
La seconda foto è di Pier Paolo Pasolini. Una partitella, in una delle borgate della Roma post-bellica, l’humus ideale dei suoi personaggi. “Senza cinema, senza scrivere, che cosa le sarebbe piaciuto diventare? Un bravo calciatore. Dopo la letteratura e l’eros, per me il football è uno dei grandi piaceri”. Così rispondeva PPP a Enzo Biagi, in un’intervista a La Stampa, il 4 gennaio 1973.
“I pomeriggi che ho passato a giocare a pallone sui Prati di Caprara (giocavo anche sei-sette ore di seguito, ininterrottamente: ala destra, allora, e i miei amici, qualche anno dopo, mi avrebbero chiamato lo “Stukas”: ricordo dolce bieco) sono stati indubbiamente i più belli della mia vita. Mi viene quasi un nodo alla gola, se ci penso. Allora, il Bologna era il Bologna più potente della sua storia: quello di Biavati e Sansone, di Reguzzoni e Andreolo (il re del campo), di Marchesi, di Fedullo e Pagotto. Non ho mai visto niente di più bello degli scambi tra Biavati e Sansone (Reguzzoni è stato un po’ ripreso da Pascutti). Che domeniche allo stadio Comunale!”.
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Così raccontava un Pasolini quasi infantile, che trasmette una gioia assoluta, una fuga sulla fascia (da buona ala destra) verso la libertà, quando il terzino è oramai troppo indietro per riprenderti, dove il pallone è il tuo destino, puoi crossare o tirare, o dribblare ancora, o passare. Liberi, di creare. E la poesia, Pasolini, la vedeva anche nei grandi calciatori del suo tempo.
“Bulgarelli gioca un calcio in prosa: egli è un “prosatore realista”; Riva gioca un calcio in poesia: egli è un “poeta realista”.Corso gioca un calcio in poesia, ma non è un “poeta realista”: è un poeta un po’ maudit, extravagante. Rivera gioca un calcio in prosa: ma la sua è una prosa poetica, da “elzeviro”. Anche Mazzola è un elzevirista, che potrebbe scrivere sul “Corriere della Sera”: ma è più poeta di Rivera; ogni tanto egli interrompe la prosa, e inventa lì per lì due versi folgoranti”, scriveva Pasolini.
La terza foto è quella di un bimbo. Con un cappello e il pallone. Perché è il portiere della squadra. E’ Albert Camus, negli anni dell’infanzia nella sua Algeria, matrigna seducente. “Tutto quello che so sulla moralità e sui doveri degli uomini, lo devo al calcio”, la frase più celebre del giornalista e scrittore francese.
“Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno”, commentava più tardi, quando aveva già smesso di giocare per colpa della tubercolosi che lo colpì 18enne.
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Giocava in porta, Camus. Un ruolo che permette di pensare. Unisce il pensiero fulmineo del riflesso, quello lungo dell’attesa, quello doloroso del bilancio. Un uomo come lui, straniero per sempre, ovunque, non avrebbe potuto esprimersi al meglio in mezzo al campo, tra fiati e voci. Doveva guardare, attendere, valutare.
Un elenco infinito, quello degli intellettuali pazzi di pallone. Elliot, Saba, Montale, Montalban, Galeano, Soriano, Leopardi, Sartre. Allora si può dire, una volta per tutte, che lo stereotipo è battuto. Ma anche no, perché nel calcio servono tutti, i fantasisti e i mediani. Senza gli ostacoli, il colpo di genio sarebbe noioso come un goal a porta vuota.
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