La storia di Ana e del Culture Exchange, il bar ciclo-officina di Novi Sad
di Patrizia Riso
20 aprile 2014 – Il Culture Exchange è un bar multiculturale dove è anche possibile riparare la propria bicicletta gratuitamente. È stato fondato nel 2012 da sette persone provenienti da diversi Paesi. Nel 2013, sei di loro sono stati espulsi dal Paese in seguito alla pubblicazione di un articolo diffamatorio. L’unica ad essere rimasta è Ana che ci racconta la sua storia, quella del bar e l’attacco, politico e mediatico, subito dall’associazione Culture Exchange.
Incontro Ana al Culture Exchange ovviamente, comodamente sedute ad uno dei tavolini colorati del locale. Mentre mescolo l’espresso che mi ha appena servito, le chiedo di raccontarmi come è arrivata a Novi Sad e perché ha deciso di restarci.
Facevo la ballerina in un gruppo in Inghilterra, eravamo diventati abbastanza famosi. Ma non ero felice, sentivo un senso di insoddisfazione. Volevo fare un’esperienza in ambito umanitario all’estero. Navigando su internet ho conosciuto dei ragazzi che volevano avviare qualcosa in Serbia. Parlavano di cambiare il mondo partendo da noi stessi, di come poter essere propositivi. Quei discorsi mi hanno ispirata perché era proprio quello che provavo. Ci siamo incontrati qui a Novi Sad nel 2010 e da lì è nato tutto.
Oggi il Culture Exchange è uno dei bar più famosi della città. Come è nata l’attività e perché in Serbia?
Quasi tutti tra i fondatori erano stati qui per l’Exit Festival ed erano rimasti impressionati dalla città e dai suoi abitanti, così abbiamo deciso di provare a far qualcosa qui. Inizialmente facevamo attività con i bambini, abbiamo aperto un asilo dove si parlava inglese. Ci ritrovavamo con molto tempo disponibile e pochi soldi. È stato allora che è nata l’idea di aprire un bar, da subito condivisa da tutti nonostante nessuno avesse un’esperienza del genere. Non avevamo idea di cosa si dovesse fare, ma ci siamo detti “ok, facciamolo”. Intanto Simon, uno dei fondatori, aveva cominciato a comprare alcune bici al Najlon – uno dei mercati di Novi Sad famoso per la vendita di bici ndr – e ha lanciato l’idea del Bike Kitchen, una ciclo-officina nel seminterrato del locale dove permettere a tutti di aggiustare la propria bicicletta. Io ho scelto di stare qui perché mi trovavo bene, anche grazie alla presenza di quelli che sono diventati i miei migliori amici. Mi sentivo felice, libera, a casa.
Avete incontrato difficoltà nell’avviare l’attività in Serbia?
Dopo aver deciso di aprire il bar, abbiamo cominciato a mettere da parte dei soldi in diversi modi: abbiamo acquistato delle bici da uno sponsor turco per rivenderle; abbiamo realizzato un videoclip per pubblicizzarci e avviato un progetto di crowdfunding. Nel 2012 abbiamo trovato questo posto e siamo riusciti ad aprire davvero il bar. Amici e conoscenti ci mettevano in guardia dalle difficoltà linguistiche e burocratiche che avremmo incontrato, soprattutto il fatto che avremmo potuto subire molti controlli e che saremmo stati a rischio chiusura. Ma al tempo stesso altri ci hanno aiutati accompagnandoci negli uffici, facendoci da interpreti e da mediatori in tutti i passaggi chiave. Non so quale sia il grado normale di difficoltà, ma credo che non sia stato poi così difficile considerando che abbiamo fatto tutto noi: dipinto, costruito il bancone, pensato e realizzato l’arredamento.
Perché credi abbia funzionato aprire un locale come questo a Novi Sad?
Il fatto che venissimo da paesi stranieri differenti e che ognuno di noi avesse a modo suo portato qualcosa della sua cultura è stato importante. Molti vengono qui per conoscere gente straniera, parlare inglese, respirare un’aria diversa, viaggiare pur restando nella propria città. I giochi da tavola, il Bike Kitchen, il caffè con i cereali, rendono il posto particolare. La mia paura iniziale di un potenziale fallimento si è poi trasformata in reale sorpresa, quando ho realizzato che il progetto funzionava e che il locale era sempre pieno di gente fin dal giorno dell’inaugurazione. È stato davvero un periodo emozionante.
La sera prima di incontrare Ana, vengo a conoscenza dello “scandalo” nel quale è stato coinvolto suo malgrado il Culture Exchange. Il 20 Giugno 2013 viene pubblicato un articolo sul portale Teleprompter.rs nel quale veniva ricostruita in maniera contorta la storia del bar, indicato come centro di corruzione giovanile e di incontri sessuali. Gli attivisti dell’associazione culturale Culture Exchange venivano accusati di far parte di una setta americana chiamata The family. Da lì si è innescato un meccanismo di strane manovre politiche che si è concluso con l’espulsione di uno dei fondatori – Simo, ragazzo americano residente da vari anni a Novi Sad, sposato con una donna greca e con tre figli cresciuti in Serbia – e il mancato rinnovo del permesso di lavoro per altri cinque soci.
Come si è arrivati all’attacco diffamatorio nei vostri confronti e all’espulsione di Simon? Chi aveva interesse ad attaccare il Culture Exchange?
Il sito sul quale è stato pubblicato l’articolo che ha scatenato la vicenda è stato creato ad hoc. L’autore dell’articolo – Danilo Redžepović ndr – ha cercato informazioni su internet, studiando i nostri profili Facebook e attaccandoci anche a livello personale. Ha creato un clima di violenza tale da farci ricevere minacce di morte via mail, fino a che il 16 luglio qualcuno ha rotto la vetrina del bar con una pietra. Ci ha messo in pericolo personalmente. Una cosa davvero poco etica, tanto che alcuni rappresentanti di associazione di giornalisti sono venuti qui a scusarsi e a prendere le distanze da quell’articolo e da quella “tecnica investigativa”. L’autore non ci ha mai contattati, non è mai venuto a vedere cosa succede qui e non ha mai chiesto la nostra storia. Se avesse mentito solo un po’, probabilmente sarebbe venuta fuori una cosa verosimile, ma la teoria elaborata era cosi incredibile da risultare ridicola. È evidente che non facciamo parte di nessuna setta religiosa, non organizziamo orge e non usiamo la pedofilia per aggregare i giovani di Novi Sad. Credo che ogni volta che crei qualcosa di positivo che ha un certo impatto sociale, trovi qualcuno che cerca di ostacolarti perché la tua esperienza positiva crea una sorta di disagio. C’è stata poi una ragione politica dietro tutta la vicenda, forse dovuta a cambi nell’amministrazione comunale, ma di questo non abbiamo prove. È stato un periodo davvero difficile perché non sapevo neanche come spiegarmi e raccontare gli avvenimenti che hanno portato all’espulsione dei miei amici. Io credo che la Serbia abbia molti aspetti positivi, ma è anche un paese molto tradizionale dove ancora, per alcuni, è forte la paura del diverso e del nuovo.
Credi che in un altro paese sarebbe stato possibile dimostrare la falsità delle accuse?
Probabilmente sì, ma qui non avevamo una conoscenza cosi approfondita del sistema legale tale da poterci difendere nel modo migliore. Durante la seconda conferenza stampa che abbiamo organizzato qui al bar, alcuni avvocati si sono proposti di fornirci assistenza legale gratuita. Intanto tutti i soci del bar hanno avuto problemi a rinnovare il visto, quindi hanno dovuto lasciare il Paese mentre Simon non potrà entrarci fino al 2015. È stato espulso perché accusato di lavorare con un permesso da volontario, mentre i servizi del Bike Kitchen che allora gestiva lui sono sempre stati offerti gratuitamente. Gli altri membri sono stati espulsi grazie a diversi cavilli burocratici. Io sono riuscita ad ottenere il visto ma solo in seguito ad un interrogatorio organizzato ad hoc con il capo della polizia locale, dopo aver presentato una serie di documenti specifici. Pur non avendo mai svolto attività illecite nel paese, siamo stati trattati tutti come criminali da parte delle autorità serbe. È stato davvero difficile, traumatico. Mi sento di dire però che, nonostante tutta la faccenda, sotto alcuni punti di vista è stato un periodo stimolante: gente che non era mai entrata nel bar è venuta a conoscerci e a chiedere informazioni, chi ci conosceva ci ha supportato. Chi voleva far chiudere il Culture Exchange lo ha in qualche modo pubblicizzato. Ora pensiamo a replicare l’esperienza in altri Paesi.
Ana insiste e il caffè è offerto dalla casa. Quando il registratore è spento si concede un sorriso mentre torna a servire i clienti del pomeriggio. Mentre la saluto ripenso a quanto era affollato il bar la sera prima mentre durante la proiezione di un noto film veniva esaltata la bontà della combinazione tra caffè e sigarette. Quale che sia la verità sul passato dei fondatori del bar, frequentandolo e conoscendo chi ci lavora, usando la ciclo-officina, non si può non pensare che il Culture Exchange e la città di Novi Sad siano davvero un’ottima combinazione.
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NB. È stato possibile consultare gli articoli in serbo grazie alla traduzione di Jacopo Giannangeli
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