Il fenomeno dei lavoratori immigrati nei Paesi del Golfo è la cosa che più mi ha turbato in Medio Oriente
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/11/FacebookHomescreenImage.jpg[/author_image] [author_info]di Susanna Allegra Azzaro. Amo definirmi “cittadina del Mediterraneo”. Le mie origini si perdono tra Sardegna, Genova, Sicilia e Nord Africa, ma è a Roma che sono (casualmente) nata. Lavorare nella cooperazione internazionale mi ha dato la possibilità di vivere un po’ in giro nel mondo; la curiosità, invece, mi ha spinta a cercare di imparare il più possibile dalle culture con cui sono venuta a contatto. Tra il 2008 e il 2009 il lavoro mi porta in Medio Oriente e da allora esso continua ad essere una presenza costante nella mia vita. Recentemente vi sono tornata per approfondire i miei studi della lingua araba colloquiale “levantina”.[/author_info] [/author]
22 aprile 2014 – Uno dei pregiudizi più comuni sul Medio Oriente è che per una donna, soprattutto se giovane e single, la vita lì sia una specie di inferno, un continuo susseguirsi di soprusi e diritti negati. Non mi soffermerò a lungo su questo aspetto, non essendo il tema del post di oggi, ci terrei comunque a precisare che non condivido questo pensiero piuttosto diffuso. Sono sopravvissuta benissimo alle discriminazioni in Medio Oriente perché ci sono abituata. In Europa, come nel resto del mondo occidentale, nonostante l’innato senso di superiorità che ci contraddistingue, ancora molto andrebbe fatto per tutelare maggiormente i diritti delle donne.
L’aspetto che più mi ha turbata, invece, quello che non sono mai riuscita veramente a digerire del Medio Oriente, l’ho vissuto solo indirettamente. Ogni giorno mi sentivo spettatrice impotente, e in qualche modo complice, di uno spettacolo osceno, dove protagonisti assoluti erano le tristi conseguenze dell’arroganza e del senso di superiorità di certi gruppi di individui.
Se tra l’Ottocento e il Novecento la schiavitù fu abolita nella stramaggioranza degli stati occidentali e non, lo stesso, almeno nella pratica, non si può affermare per alcuni Paesi del Medio Oriente. Non bisogna essere particolarmente arguti né sensibili alle disgrazie altrui per capire quello che, sotto gli occhi indifferenti di molti, sta avvenendo nei Paesi del Golfo..
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Ultimamente la testata inglese The Guardian ha cominciato ad appassionarsi molto al tema dello sfruttamento di centinaia di migliaia di indiani, bengalesi e cingalesi impiegati soprattutto nella costruzione di infrastrutture in vista dei mondiali di calcio del 2018. I dati, difficili da reperire e raccolti in maniera officiosa, parlano di un numero impressionante di morti sul lavoro e, viste le condizioni disumane in cui sono costretti a vivere e lavorare gli immigrati, anche il tasso dei suicidi desta non poca preoccupazione.
La manodopera a basso costo viene reperita direttamente nei Paesi di provenienza degli ignari immigrati, soprattutto nelle zone dove disoccupazione e disperazione raggiungono livelli particolarmente elevati. Lì un giorno, miracolosamente, si materializza un uomo con la soluzione a tutti i problemi. Promette un lavoro sicuro, un buon guadagno, la possibilità di mettere da parte una somma decente di denaro per ritornare in madrepatria e vivere una vita dignitosa. Qui nessuno ha niente da perdere, si riesce a malapena a sopravvivere, tanto vale fare il sacrificio per qualche anno. Uno stipendio vero non lo hanno mai avuto e la cifra di cui sentono parlare, in dollari, è più di quanto potessero aspettarsi dalla vita. Solo molto più tardi scopriranno che di quella cifra una grossa percentuale verrà tenuta dal datore di lavoro per rifarsi delle spese di viaggio, visto e mantenimento dei malcapitati.
Le condizioni di vita di questi lavoratori, una volta arrivati a destinazione, sono da anni sotto il mirino di numerose organizzazioni operanti nel settore dei diritti umani. In migliaia vivono in veri e propri ghetti distanti quanto basta dal centro delle città, spesso al confine con il deserto. In alcuni insediamenti non ci sono vere e proprie costruzioni, ma solo innumerevoli container di lamiera, dove si vive ammassati l’uno sull’altro. Spesso lavorano la notte perché di giorno le temperature superano i cinquanta gradi, ma capita di vederli spazzare le strade o arrampicarsi senza protezione su grattacieli in costruzione anche con il solleone.
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Li vedi pulire i pavimenti degli aeroporti o dei centri commerciali, lavorare nelle cucine dei ristoranti, lavare con discrezione i bagni. Eccome per molti è come se non esistessero. Vivono per lo più tra l’indifferenza generale dei locali e degli espatriati, eccetto quando, con il capo chino e lo sguardo basso, incassano gli insulti di qualche cliente arrogante.
Molti non possono tornare a casa; il passaporto viene “sequestrato” all’arrivo dal datore di lavoro e gli verrà riconsegnato solo dopo un tot di anni di lavoro, quando avranno ripagato le spese di viaggio e visto. Per anni la loro vita non sarà altro che lavoro, umiliazioni e sfruttamento. C’è chi ce la fa a mettere da parte una somma decente e a tornare in madrepatria, ma ce ne sono molti che a casa non torneranno più. Muoiono come mosche sui grattacieli in costruzione o suicidi nei lager dove sono costretti a vivere. Le ambasciate dei loro Paesi di provenienza spesso se ne lavano le mani, in fondo si tratta solo di poveracci senza arte né parte.
Diversa, ma con un epilogo simile, è la sorte che tocca alle loro connazionali donne. Spesso impiegate come cameriere o babysitter presso ricche famiglie locali, lavorano sette giorni su sette, non hanno diritto a giorni di riposo, weekend o semplici momenti di svago. Numerosi sono i casi di donne picchiate e violentate dai propri datori di lavoro, assenti sono le istituzioni e le leggi che dovrebbero tutelarle.
Una volta mi capitò di conoscere una donna asiatica impiegata come governante tuttofare presso una famiglia benestante in Kuwait.
Il passaporto le era stato sequestrato e, dopo l’ennesima violenza subita, si era recata presso la sua ambasciata per ricevere soccorso. Fu letteralmente sbattuta fuori dai funzionari dell’ambasciata, intenzionati a tenersi il più possibile alla larga dalla faccenda.
Al momento in Arabia Saudita 13 cittadine filippine sembrano essere sparite nel nulla; l’uccisione di un’altra donna qualche mese fa ha finalmente fatto insorgere il governo di Manila. Grazie al suo intervento, la colf Rodelio Lanuza è stata risparmiata dalla pena di morte alla quale era stata condannata dopo aver ucciso l’uomo saudita che stava cercando di violentarla.
Le organizzazioni internazionali e le Nazioni Unite sono purtroppo impotenti, i governi nazionali raramente si interessano alla faccenda. Qui non c’è spazio per la negoziazione o alcun sinallagma. C’è chi ha il potere e chi è relegato al mero ruolo di suddito, chi è tutelato dalle leggi e chi le subisce e basta.
La prossima volta che leggerete l’ennesimo articolo su come Dubai o il Qatar siano arrivati ad essere, in pochi anni, terra di opportunità e sviluppo, ricordatevi che quel benessere lo si deve anche al sangue e alla vita di migliaia di individui, invisibili ai più, ma che, vi assicuro, respirano pensano e soffrono proprio come noi.
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