Guerra in Bosnia, una foto del grande Ron Haviv, riporta l’attenzione su una vicenda che sembrava ormai dimenticata
[note color=”000000″]In occasione del 27 gennaio, Giorno della Memoria, Q Code inaugura una nuova sezione, “Storia e memoria”. Ogni mese, in questo spazio, racconteremo “storie nella storia”: storie di vita che incrociano, in uno o più momenti, la Storia con la S maiuscola. Parleremo anche di memoria, intesa come memoria storica, collettiva, personale, memoria costruita o decostruita, per indagare le diverse sfumature di un processo che è tutto tranne che neutro.[/note]
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/06/Schermata-2013-06-15-alle-20.39.17.png[/author_image] [author_info]di Francesca Rolandi. Storica, ha portato a termine un dottorato in Slavistica e si occupa di studi sulla Jugoslavia socialista. Ha vissuto a Belgrado, Sarajevo, Zagabria e Lubiana e ha provato a raccontarle per PeaceReporter, Osservatorio Balcani Caucaso, Cafebabel e Profili dell’Est[/author_info] [/author]
23 aprile 2014 – Bijeljna, Aprile 1992. La guerra fa la sua irruzione nella Repubblica di Bosnia Erzegovina, entrando da questa cittadina di media grandezza nell’angolo nord-orientale del Paese, al confine con la Serbia.
A farvi irruzione sono diverse milizie paramilitari serbe, tra cui le ormai tristemente note “Tigri” di Željko Ražnatović, detto Arkan, protette dall’esercito che circondava il centro abitato. A documentare i massacri il fotografo americano Ron Haviv, che Arkan ha personalmente invitato, stuzzicato dall’impatto che sul suo ego ha avuto la foto che lo ritraeva in maniera teatrale alla testa della sua unità paramilitare mentre teneva in mano un cucciolo di tigre. Haviv ha raccontato più volte come Arkan stesso, accortosi di quello che aveva fotografato, gli abbia sequestrato un rullino e di come il fotografo sia riuscito con uno stratagemma a conservare il rullino precedente.
Dalla presa di Bijeljna risultano una cinquantina di morti in una manciata di ore, almeno cinquecento prima della fine della guerra, per i quali ad ora quasi nessuno ha pagato un conto alla giustizia. Dei circa 30mila bosgnacchi (musulmani di Bosnia) che abitavano la città prima della guerra, secondo le stime ne sarebbero ritornati circa 5mila. Che non si sentono pienamente a loro agio, costretti a camminare per strade che in alcuni casi portano il nome degli esecutori dei massacri dell’aprile 1992, come “via della Guardia volontaria serba”.
Uno di costoro è il giornalista Jusuf Trbić, direttore del giornale locale e della radio cittadina prima della guerra, che venne arrestato in quei giorni, sottoposto a maltrattamenti e minacciato di morte, finché sarebbe entrata in scena Biljana Plavšić – la lady nera della guerra di Bosnia, vicepresidente della Repubblica Srpska (dei serbi di Bosnia) dal 1992 al 1996 e unica donna ad essere condannata dal Tribunale penale per la ex Jugoslavia. Plavšić viene ricordata per essersi fatta fotografare, a pochi giorni dal massacro, mentre abbracciava il capo paramilitare Arkan, ringraziandolo per avere “liberato” la città di Bijeljna.
Nel caso di Trbić, invece, avrebbe dato ordine di graziarlo, data la sua popolarità.
Trbić, oggi capo della locale comunità bosgnacca, ha raccolto le testimonianze dei suoi concittadini sui massacri commessi a Bijeljna in un libro documentario che è stato utilizzato come materiale accusatorio nel processo all’Aia contro Radovan Karadžić. Nei giorni scorsi ha scritto una lettera aperta alla cittadinanza per chiedere aiuto a riconoscere un giovane, ritratto in una foto della quale sarebbe venuto in possesso recentemente, che ritrae un giovane civile sottoposto a maltrattamenti da parte di due paramilitari. Alla vittima viene gettata dell’acqua addosso, probabilmente per farla rinvenire dopo essere stata gettata dal piano di una casa e prima di essere brutalmente picchiato, secondo le testimonianze.
Il soggetto nella fotografia si è rivelato essere lo stesso di una foto ben più famosa scattata da Ron Haviv, che lo ritraeva con le mani alzate davanti ai mitra che gli venivano puntati contro, e di lui si sa solo che sarebbe stato un cameriere albanese, ancora per il momento senza nome. Ron Haviv stesso ha dichiarato di aver sentito che l’uomo in questione sia sopravvissuto e di essere andato personalmente a cercarlo in un ospedale locale, ma di non averne mai più saputo nulla. La popolazione albanese della ex Jugoslavia proveniva dal Kosovo e in genere svolgeva i lavori più umili, oltre a quello tradizionale di panettiere e pasticcere. Alcuni di loro furono uccisi o risultarono dispersi durante la guerra, con numeri molto alti proprio a Bijelina.
Intanto, la fotografia sta facendo il giro dei media bosniaci, in una sorta di “Chi l’ha visto?” che richiama i fantasmi della guerra. Dove spesso a mancare non sono tanto i testimoni diretti, ma quelli che vogliano parlare. D’altra parte non sarebbe la prima volta che il protagonista di una fotografia che ha cambiato la storia ritrovasse un’identità a distanza di due decenni. Nel 2012 è stato arrestato per traffico di armi e possesso di droga a Belgrado un noto dj di musica elettronica, al secolo Srdjan Golubović.
Secondo una notizia del quotidiano bosniaco Dnevni Avaz mai smentita, si tratterebbe del paramilitare che nella famosissima fotografia di Ron Haviv viene ritratto in procinto di colpire con un calcio la testa di una donna morta sul marciapiede. Una notizia che se confermata apparirebbe quanto mai paradossale – nell’immaginario collettivo la musica elettronica è stata sempre ricollegata in Serbia a un’inclinazione antinazionalista e a una cultura alternativa all’establishment pro-Milošević – ma che rimanda a una più ampia e amara verità: molti criminali e non poche vittime della guerra degli anni ’90 sono ancora senza nome.