[note color=”000000″]In occasione del 25 aprile la sezione “Storia e memoria” di Q Code propone lo speciale “Liberati!” Per la Festa della Liberazione continuiamo a raccontare “storie nella storia”: storie di vita che incrociano, in uno o più momenti, la Storia con la S maiuscola. Parliamo anche di memoria, intesa come memoria storica, collettiva, personale, memoria costruita o decostruita, per indagare le diverse sfumature di un processo che è tutto tranne che neutro.[/note]
Il 25 aprile 1945 i partigiani liberano Milano dal nazifascismo. Le parole di Nuto Revelli, Italo Calvino, Ada Gobetti e altri per un piccolo viaggio letterario alle origini della Resistenza
di Giulia Bondi
25 aprile 2014 – “Aldo dice 26 x 1 Stop Nemico in crisi finale Stop Applicate piano E”. Inizia così il telegramma diffuso dal Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia il 24 aprile 1945, per chiamare la popolazione all’insurrezione. La guerra di liberazione, quella che lo storico Claudio Pavone chiamerà poi “guerra civile” era iniziata con la notizia dell’armistizio tra l’Italia e le forze angloamericane, diffusa dalla radio l’8 settembre di due anni prima.
Dopo l’armistizio, i partiti antifascisti lanciano i primi appelli alla mobilitazione. Ma quello che inizialmente prevale è un arretrare di fronte all’evidenza che la guerra non è finita, come si sperava, con la caduta del fascismo il 25 luglio. Dalla metà di novembre 1943, la neonata Repubblica Sociale Italiana emana una serie di bandi di arruolamento, per ricostruire l’esercito chiamando alle armi i giovani italiani nati tra il 1923 e il 1927. Molti decidono di nascondersi, per paura di finire a combattere in quella guerra da cui troppi amici, di pochi anni più grandi, non erano tornati. Alcuni resteranno “imboscati” per venti mesi. Altri andranno a formare le prime brigate partigiane.
Contro la retorica della “guerra di popolo” (ma senza nulla togliere al valore delle scelte di chi decise di lottare) abbiamo selezionato alcuni brani letterari e testimonianze per raccontare i primi mesi della Resistenza. Sono i mesi in cui tanti giovani e ragazze, cresciuti nella propaganda del Ventennio, subiscono in prima persona le conseguenze della violenza nazifascista. In cui si accorgono, per dirla con le parole di Luigi Meneghello, che con le armi in mano si rischia di fucilarsi il culo da soli. In cui si confrontano con i compagni di lotta più grandi ed esperti, con chi viene dalla guerra di Spagna o è sopravvissuto, come Nuto Revelli, alla campagna di Russia. In cui prendono coscienza della necessità di lottare, non solo per la Liberazione, ma per un’Italia più giusta.
8 settembre. La notizia dell’armistizio mi entra in casa dalla strada. Gridano che la guerra è finita, che Badoglio sta parlando. Con Anna scendo in via Roma, quasi di corsa, perché sento che un’altra guerra sta incominciando (…)
Corro a casa. Indosso la divisa, prelevo i parabellum, filo in caserma. (…)
Mi presento al primo ufficiale che incontro nel corpo di guardia. “Sono del 5° alpini, – gli dico, – sono a casa in convalescenza. Chiedo di poter fare qualcosa” .
Il capitano, un certo Romiti, osserva i miei parabellum, mi chiede quanti colpi sparano. Poi, con voce stanca conclude: “Faresti meglio a startene tranquillo, a goderti la convalescenza. Qui perdi tempo, non si farà niente”.
(Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi 2005)
Paolo scappò via subito e tornò dopo un’ora, gli occhi sfavillanti. Con gesto di trionfo – lo stesso gesto con cui qualche anno prima mi mostrava il quadrifoglio o il fungo trovato – depose sul tavolo due bombe a mano e un fucile. Era stato al vicino casello ferroviario, abbandonato dai militi.
Domani – disse, – andrò con Gianni a fare un giro negli altri caselli. Vedrai che troveremo un mucchio di roba.
Avrei voluto chiedergli: E poi? Che cosa vuoi fare? Che cosa bisogna fare? – Ma non ne ebbi il coraggio. Mi sentivo stanca, come svuotata: non potevo affrontare la situazione, prendere decisioni. Volevo, per un momento ancora, ignorare, dimenticare. Dimenticare e dormire.
Il mattino seguente – era domenica – dopo una notte di sonno e la prospettiva di un’intera giornata di pace, ebbi finalmente agio di pensare. Capivo, pur confusamente, che s’iniziava per noi un periodo grave e difficile, in cui avremmo dovuto agire e lottare senza pietà e senza tregua, assumendo responsabilità, affrontando pericoli di ogni sorta.
(Ada Gobetti, Diario partigiano, Einaudi 1996)
Nessuno si curava di quei proclami
Il primo fenomeno di massa è quello della renitenza alla leva, da parte dei giovani che vogliono sfuggire alle chiamate alle armi del ricostituito esercito della Repubblica sociale italiana.
Tutti i giorni, in ogni strada, poteva succedere di vedere un camion della polizia fermarsi davanti a un fabbricato, con l’ordine di perquisirne ogni ambiente fino sui tetti e i terrazzi, alla caccia di qualcuno segnato con nome e cognome su un pezzo di carta. Nessuna norma limitava questa caccia perpetua e senza preavviso, in cui l’arbitrio dei padroni era totale. Spesso un intero isolato o quartiere veniva sbarrato all’improvviso da cordoni di truppe con l’ordine di razziare, dentro quel circuito, tutti i maschi dai 16 ai 60 anni, per deportarli nel Reich ai lavori forzati. Istantaneamente i trasporti pubblici venivano bloccati e svuotati, una folla inerme e pazza correva in disordine verso fughe senza uscita, inseguita da raffiche di mitraglia.
Già da mesi, invero, tutte le strade erano tappezzate di bandi stampati su carta rosa, che ordinavano agli uomini validi di presentarsi al lavoro obbligatorio sotto pena di morte; però nessuno ubbidiva, nessuno si curava di quei proclami, ormai non li leggevano nemmeno più.
(Elsa Morante, La storia, Einaudi 2005)
Il viaggio dura tre giorni e due notti. La seconda sera dopo la partenza, arriviamo a Vienna e il treno si ferma molto lontano dalla stazione, una specie di parco ferroviario di deposito. Il mattino dopo giungiamo a Mauthausen. Circondati da SS urlanti e cani che abbaiano, ci incolonnano, e dopo una marcia di un paio di chilometri in salita, in mezzo alla neve, arriviamo al campo che è un forte sopra una collina.
Grandi portoni di legno, un muro quasi monumentale, fatto di rosse pietre, pietre portate su dalla cava dai compagni che ci hanno preceduto e che poi sono morti, per tutto quello che hanno dovuto subire.
Ora queste pietre sono come delle tombe, tombe senza croce, tombe senza epitaffio.
Varcare la porta del campo, mi sembra di varcare la porta dell’inferno e, infatti, è così.
Dopo che siamo entrati, ci fanno scendere in un grande locale adibito a doccia, dove ci fanno spogliare.
I miei indumenti e tutto ciò che mi può ricordare la mia vita passata mi viene tolto. Mi rapano a zero dappertutto, mi spalmano fra le gambe e in testa con un liquido disinfettante dall’odore pungente poi mi fanno uscire nudo, in mezzo alla neve, ad attendere che escano gli altri. Infine, tutti insieme attraversiamo di corsa il campo e veniamo sistemati in una baracca, così detta di quarantena.
(Carlandrea Dell’Amico, Un pugno di ricordi, qui l’ebook gratuito)
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Dissi alla mamma di svegliarmi alle 3
Al Sud gli Alleati stanno risalendo la penisola, alcuni sono convinti che la liberazione sia una questione di tempo e scelgono l’attesa. Ma i giovani delle classi richiamate alle armi sono costretti a decidere. Possono presentarsi ai distretti militari, col timore di finire al fronte. Possono nascondersi. Oppure aderire alle bande partigiane.
Noi, che in quei giorni andavamo senza esito da esponenti di tutti i partiti per sollecitarli a prendere decisioni sulla lotta armata, stanchi di attendere, il 18 settembre decidemmo di partire in bicicletta per il Sud, per tentare di raggiungere le truppe di liberazione alleate e combattere al loro fianco. Dissi alla mamma di svegliarmi alle 3 e che non mi aspettasse per l’ora di pranzo perché non sapevo se sarei tornato (la segretezza valeva anche per la mamma).
(Ennio Tassinari, Un Americano nella Resistenza, Longo Editore 1992)
Ritorno sovente al 26 luglio, all’8 settembre. Senza l’esperienza di Russia non sa come avrei scelto. 26 luglio: tutti antifascisti, troppi antifascisti. La verità credo sia questa: che gli antifascisti in Italia erano pochi. Bestemmiare vestendo l’orbace, raccontare barzellette, non era antifascismo, era confusione morale.
Senza la Russia, all’8 settembre mi sarei forse nascosto come un cane malato. Se nella notte del 25 luglio mi fossi fatto picchiare, oggi forse sarei dall’altra parte.
Mi spaventano quelli che dicono di avere sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l’8 settembre non era facile!
(Nuto Revelli, La guerra dei poveri, Einaudi 1962)
Ho sempre odiato il panno grigioverde
Il momento della scelta è anche quello della contrapposizione. Ci sono figli che fanno scelte diverse dai padri, fratelli e gruppi di amici che si separano, schierandosi uno contro l’altro.
– Sono scappato stamattina, – esclamò dopo una pausa, con voce mutata, tremante. Non posso più starci. Mia zia è fascista, mio cugino è fascista, è nella “brigata nera”. Dicono che io sono renitente alla leva, che finora mi hanno tenuto nascosto e se ne pentono. Vogliono che vada a presentarmi…- e guardò in faccia la signorina, bianca come una morta, – e io a presentarmi, con quegli assassini, con quei delinquenti, perdio, non ci vado.
(Renata Viganò, La grande occasione in Racconti della Resistenza, a cura di G. Pedullà, 2005)
Fui il primo bambino iscritto all’Opera Nazionale Balilla, e mi fecero anche la divisa. Non mi piaceva: ho sempre odiato il panno grigioverde – anche se nei libri veniva definito “glorioso” – perché punge e irrita la pelle. Può cominciare così la vicenda di un antimilitarista.
(Enzo Biagi, Disonora il padre, Rizzoli 2008)
Stracciati come il più povero dei contadini
La Resistenza muove i primi passi in montagna. Le condizioni di vita, già difficili, sono peggiorate dopo tre anni di guerra, che ha portato via – spesso per sempre – braccia necessarie al lavoro: caduti in Unione Sovietica, Jugoslavia, Albania, Grecia, Francia, Africa. La quotidianità dei primi partigiani è solo in parte scandita dalle vicende militari. Si formano amicizie indelebili e non manca la voglia di scherzare, che può condurre a imprudenze, ma che in fondo è un riappropriarsi di quella gioventù negata dalla guerra e dal fascismo.
– Sono Renzo Barocci, che lei ha richiesto, questo è Bruno e questo è il radiotelegrafista. – Ma io non ho chiesto nessuno, risponde con un accento di cui appena si avverte la durezza straniera, sorridendo negli occhi. […]
– Ma non è lei il maggiore J. che secondo quanto ci hanno detto comanda una divisione partigiana?
– No, io sono il maggiore Tony. E tutti i miei uomini sono questi pochi che qui vedete.
Continuiamo a parlare con una cortesia che s’è fatta ricercata, quasi a volerci mostrare reciprocamente ancora civili in mezzo a un bosco, mentre intorno a noi sbucan fuori dai cespugli a curiosare i partigiani, alcuni con uniformi militari inglesi, altri stracciati come il più povero dei contadini.
(Roberto Battaglia, Un uomo, un partigiano, Il Mulino 2004)
I sogni dei partigiani sono rari e corti
Si sale in montagna per nascondersi, ma le dure condizioni e il clima condizionano la capacità di movimento necessaria a sfuggire ai tentativi di cattura. Senza vegetazione, rallentati dalla neve (nel Nord Italia l’inverno 1944 fu particolarmente rigido), i partigiani devono trovare rifugio in grotte, anfratti, stalle. La mancanza di scarpe e vestiti adatti e la difficoltà di provvedere alla pulizia facilitano il diffondersi di malattie. Molti restano feriti in scontri coi nemici o per inesperienza nel maneggiare le armi. Si mangia poco: castagne e carne di pecora, più quello che si ruba dai depositi alimentari nemici o si preleva ai contadini (in cambio di ricevute). La prima battaglia quotidiana è quella per il cibo.
I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco e da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sotto terra. Solo quando lo stomaco è pieno, il fuoco è acceso, e non s’è camminato troppo durante il giorno, ci si può permettere di sognare una donna nuda e ci si sveglia al mattino sgombri e spumanti, con una letizia come d’ancore salpate.
(Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi 2002)
Costeggiavano la proda della strada, ora erano alla svolta alla quale si apriva l’altipiano scabro e cespuglioso. Il Biondo e Pinco stavano già marciando in piano, tutti gli altri sgarrettavano l’ultima erta… Uno stuolo di nemici sorse dai cespugli, come centauri arborei. Vestivano uniformi tedesche nuove di trinca, ma graziose ed arrangiate secondo una esigenza italiana, ed italiani erano i loro colli che fuoruscivano dagli elmetti, italiane le loro digrignate stature, in italiano insultavano e chiedevano la resa. Ma avevano già aperto il fuoco, e già Pinco andava a catafascio con la sua arma, gli oppresse l’enorme schiena dopo che gli si fu inarcata per l’ultimo sospiro. Il tenente, loudly imprecando a se stesso, aveva messo un ginocchio a terra e stava spianando il mitra. Ma una fucilata lo colpì, sbilanciandolo: si riequilibrò e sparò una raffica, i fascisti raddoppiarono tutti su lui, e stavolta lo stesero, le sue lunghe, magre, bancate gambe dando un ultimo doppietto. Il Biondo scosse così lampantemente il capo che la sua fine ipnotizzò i fascisti, stettero per un attimo con le armi mute e scostate come ad allargarsi la visuale del successo. Ma poi ripresero a rafficare, e Fred che avanzava con le mani alte quasi ad imporre d’autorità la sua resa, ricevette gran parte del fuoco e stramazzò.
(Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny, Einaudi 2005)
Uno dei nostri ha tradito
La scelta della Resistenza comporta il rischio di rimanere feriti o uccisi negli scontri, ma anche quella di essere traditi e consegnati al nemico, da spie o dai propri stessi compagni.
– Hanno visto l’incendio e vengono: lo sapevamo, – dice qualcuno di loro. Il Dritto è in piedi, un po’ discosto, i riverberi gli illuminano le palpebre abbassate.
– L’incendio, certo, anche l’incendio. Ma c’è qualcosa d’altro, – dice Kim e soffia una boccata di fumo, lentamente. Gli uomini stanno zitti: anche il dritto alza gli occhi.
– Uno dei nostri ha tradito, – dice Kim. Allora l’aria si fa tesa, come per un vento che tiri nelle ossa, l’aria del tradimento fredda e umida come un vento di palude che si sente ogni volta che giunge agli accampamenti una notizia come questa.
– Chi è stato?
– Pelle. S’è presentato alla brigata nera. Così, da sé, senz’esser stato preso. Ha già fatto fucilare quattro dei nostri che erano nelle prigioni. Assiste agli interrogatori di ognuno che vien preso e denuncia tutti.
(Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi 1947)
A fare i reati comuni non si risolve niente
Con il maturare della Resistenza, alla ribellione contro lo straniero occupante e contro il regime fascista si aggiunge la consapevolezza di lottare per gettare le basi di una nuova società. Tra i partigiani, pochi hanno idee politiche ben definite, ma quasi tutti condividono l’ansia di rinnovamento e il desiderio di un’Italia più giusta, basata sul rispetto della dignità umana, sul riconoscimento dei diritti del lavoro e sulla riscossa delle classi povere. È una consapevolezza che matura progressivamente, attraverso il confronto con i compagni di formazione o di prigionia.
– Qui non si capisce più niente: ormai non ci son più che detenuti politici e un giorno o l’altro finiscono per scambiare anche me per un politico, e mi mettono al muro.
– A me m’hanno battuto, – dice Pin e mostra i segni.
– Allora sei un politico, – fa Pietromagro.
– Sì, sì, – dice Pin, – politico.
Pietromagro ci sta pensando su. – Sicuro, sicuro, politico. Già pensavo a vederti qui che tu avessi cominciato a razzolare nelle prigioni. Perché quando uno comincia una volta a finire in prigione, non ci si leva più, tante volte lo metteranno fuori, tante volte tornerà a cascarci. Certo se sei politico è un altro conto. Vedi, se l’avessi saputo, da giovane mi sarei messo nei politici anch’io. Perché a fare i reati comuni non si risolve niente e chi ruba poco va in galera e chi ruba tanto ha le ville i palazzi. A fare i reati politici si va in galera come a fare i reati comuni, chiunque fa qualcosa va in galera, ma se non altro c’è la speranza che un giorno ci sia un mondo migliore, senza più prigioni. Questo me l’ha assicurato un politico che era in prigione con me tanti anni fa, uno con la barba nera, che c’è morto. Perché io ho conosciuto comuni, ho conosciuto annonari, ho conosciuto fiscali, ho conosciuto tutte le specie d’uomini: ma bravi come i politici non ne ho conosciuto.
(Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi 1947)
Tirando fuori la fotografia dei bambini
Le stragi, le esecuzioni e la violenza alimentano la paura e l’odio; contro i tedeschi ma anche contro i fascisti, che li accompagnano e ne seguono l’esempio sulla strada delle rappresaglie.
Di notte, quando la terra diventa fantasma e noi non siamo nulla più che i sommessi bisbigli della sua vita, dai boschi delle montagne si vedono improvvisamente in basso, tra il vuoto dei rami, le costellazioni di ulcere di zolfo che bucano la pianura. I rifugiati e le vittime che sono state costrette a cercar le armi per disperazione stanno appiattiti nella terra, tra fieno e campi. (…) In penombra stanno i cespugli, e le biade e i frutti già in via di maturazione: nelle stalle il ruminare delle mucche somiglia a quello inavvertibile della terra densa e oscura, che vuol rifiutarsi alla luce lunare. Forse l’esse-esse ubriaco è già stato catturato, si risveglia e cerca di impietosire tirando fuori dal portafoglio la fotografia dei bambini ma emette suoni gutturali che a chi lo ascolta dicono solo “faier”.
(Andrea Zanzotto, Faier, Neri Pozza 1964)
Quei bastardi sifilitici impotenti
La tortura viene usata per costringere gli imprigionati a parlare: ne riferiscono i testimoni nei processi del dopoguerra contro i responsabili del fascismo repubblicano; se ne trova traccia nelle lesioni inferte ai cadaveri che saranno disseppelliti.
So che la Marta, quando arrivarono al primo piano, davanti alla porta dello studio chiuso a chiave, disse che la chiave non l’aveva, che era poi vero, perché l’avevo io in tasca; così le fecero un po’ di elettroshock (avevano la macchinetta portatile), poi buttarono giù la porta. Per la sciarpa di seta azzurra le fecero un altro po’ di elettroshock, e qualche scottatina con le sigarette. Lei però non disse nemmeno il mio nome. Era brava, la Marta: disse le prime due sillabe e cambiò le altre. Così aveva l’impressione di averlo detto, e non lo disse più. Purtroppo le peggio torture gliele fecero poi in prigione, quei bastardi sifilitici impotenti.
(Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Rizzoli 2006)
Adele lo fissò indignata. Quello si fermò, tirò una boccata dall’ennesima sigaretta, sbuffò una nuvola di fumo e la guardò di sbieco. Poi la colpì al viso con un manrovescio. Adele sentì uscire il sangue dal labbro superiore. Come si permettevano di farle questo?
(…) «Signora Giavazzi, andiamo male, credevo che foste una persona ragionevole, e invece vedo che siete ostinata. È proprio vero, allora, che la sedizione si trasmette con il sangue! Ma vi avverto che con me ribellarvi non servirebbe a niente. Parlate, per il bene vostro e del vostro disgraziato marito». «Non posso dirvi niente, perché non so niente». L’agente la colpì ancora, poi le prese il viso con le due mani, lo portò vicino al proprio e sibilò: «Dov’è?»
(SIC- Scrittura industriale collettiva, In territorio nemico, Minimum Fax, 2013)
La certezza della fucilazione del culo
Nei primi tempi della Resistenza, l’addestramento è quasi inesistente e le armi vengono usate con imprudenza, provocando molti feriti e alcuni morti.
Spiegò che lo Sten era molto più pericoloso da solo che in mano a qualsiasi nemico; battendo per terra col calcio esplodeva un colpo, e faceva un saltello in aria nel corso del quale si ricaricava; ricadendo esplodeva un altro colpo, e così via. Il guaio era che questo fuciletto era bilanciato in modo che ricadeva sempre col calcio; inoltre non sparava semplicemente in aria, ma roteava abbassando gradualmente l’angolo di tiro, e descrivendo un cerchio completo più e più volte finché aveva finito il caricatore. In questo modo la certezza della fucilazione del culo era praticamente assoluta.
(Luigi Meneghello, I piccoli maestri, Rizzoli 2006)
Un tempo lontano, c’erano dei giovani
“La Resistenza – scrive Claudio Silingardi, direttore dell’Istituto per la storia del movimento di Liberazione in Italia, nel saggio “L’inverno della nostra incertezza” – è una scuola di vita: si entra da ragazzi spesso senza avere idee chiare ma, se si è fortunati (cioè, se si sopravvive alla guerra), se ne esce uomini consapevoli, maturi. La banda partigiana, nei primi mesi formata davvero da pochi ragazzi raggruppati attorno a qualche figura di vecchio antifascista o di ex militare autorevole, è un microcosmo di crescita individuale e collettiva straordinaria. In così pochi mesi tante vite di giovani cambieranno definitivamente, per sempre”.
“Cercate di non fuggire dalla libertà”, diceva qualcuno. Noi non siamo fuggiti. Non sono fuggiti i colti e gli ignoranti.
E penso con intensità sempre maggiore, intanto che vedo arrivare la fine, a come i nostri contadini potessero combattere una battaglia senza aspettare ritorni fruttuosi, con la sola ambizione di ritornare a essere padroni a casa loro.
E ritrovo con commozione i compagni persi nelle boscaglie, nei greti dei fiumi, nei nostri alti pascoli, nati poveri prima della Resistenza e morti poveri prima di poterne apprezzare i frutti. Se potessero parlare, direbbero: “Non vogliamo essere celebrati, ma amati”.
Guai a far naufragare la Resistenza nelle parole encomiastiche. Basterà dire, che un tempo lontano, c’erano dei giovani. E poi iniziare a raccontarla da quel punto. La Storia.
(Nello Quartieri “Italiano”, all’interno di AA. VV., Io sono l’ultimo. Lettere di partigiani italiani, Einaudi 2012)
[Immagini d’epoca: Istituto storico della Resistenza e della società contemporanea di Modena. Si ringrazia Glauco Babini per la collaborazione alla selezione dei testi]
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