La tragedia degli sherpa sull’Everest ci ha colpito perché ha mostrato il lato sporco di un immaginario immacolato, quello delle vette himalayane
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/02/IMG_1396.jpg[/author_image] [author_info]di Roberto Cortelli. Nato a Bologna nel 1982, una laurea in Storia contemporanea e una in Geografia. Guida ambientale escursionistica, ha lavorato con uomini, donne, asini e bambini. È appassionato di natura a 360°, si definisce un esploratore delle superfici e dei meandri della terra. È divoratore di libri e di frutta secca.[/author_info] [/author]
27 aprile 2014 – Sono 16 gli sherpa morti il 18 aprile a causa di una valanga di ghiaccio sul versante “commerciale” dell’Everest. Si parla del più grave incidente della storia alpinistica nepalese: sui giornali e sul web è scoppiata la bolla mediatica. Sono apparsi molto articoli di taglio simil-antropologico su questo popolo, molti racconti, foto e documentari. Si è parlato, con tono nostalgico, di come il turismo abbia portato la modernità in questo angolo di mondo e dei cambiamenti che ha portato.
Ma qualcuno, fra cui Messner, ha rotto l’incantesimo e ha spiegato che quello del 18 aprile è stato un incidente sul lavoro che con l’alpinismo c’entra poco. Ed è da questa riflessione che voglio partire.
Se l’alpinismo diventa fonte importante di gettito fiscale per uno Stato e molte persone ci traggono sostentamento allora sarà trattato alla stregua di un’industria. Gli sherpa sono gli operai specializzati di questa attività economica, pagati da due a sei volte dello stipendio medio nepalese (gli introiti per uno sherpa vanno dai 2000 ai 6000 dollari all’anno, contro uno stipendio medio di 80 dollari al mese) e le vette non sono altro che “giacimenti” da sfruttare. Giustamente, dopo questo incidente, gli sherpa hanno indetto uno sciopero per chiedere più tutele al governo fra cui assicurazioni maggiori, nuove regole sui loro diritti e più aiuti economici per le famiglie delle vittime.
Eppure trattare questa vicenda come una questione sindacale stona. Ci sembra sbagliato e inopportuno. Forse perché la montagna per noi occidentali è un luogo mitico, selvaggio e romantico. Questi morti hanno insozzato il nostro immaginario svelando un’ipocrisia fatta di miti portatori, case da té e immacolate vette da conquistare.
Nel Medioevo l’alta montagna era semplicemente un posto da evitare, pericoloso e improduttivo; ci vivevano i reietti pronti ad aggredire i poveri viandanti (o i pii pellegrini) in transito per motivi religiosi. Un po’ più in basso, la vita procedeva scomoda e grama allevando e coltivando quel poco che cresceva. Poi dal Settecento una nuova moda si diffuse, quella del buon selvaggio, il sogno romantico del viaggio e dell’avventura. Fino ad arrivare agli eccessi dei giorni nostri.
Per la maggior parte delle persone, la montagna è un luogo incontaminato e libero dagli opprimenti vincoli della nostra società dove vivere grandi avventure. Un luogo in cui toccare l’estasi e scalare la montagna più alta del mondo non può essere che l’apoteosi. Ma poi apprendi che occorrono 70.000 dollari, due mesi e tanta voglia di soffrire per poter vivere questa avventura e tutta la poesia se ne va. Leggi che il governo introita milioni di dollari dai permessi e ti rendi conto che di romantico è rimasto ben poco. Sono solo soldi. Intendiamoci, i soldi sono importanti e spesso decidono sul futuro delle montagne. Perché anche in montagna sono le logiche del profitto a vincere. Perché la montagna non è un luogo magico e puro ma un territorio inserito al 100 per cento nel nostro mondo globale.
Se non ci fosse il turismo d’alta quota che scatenando fallici istinti da maschio alpha e spingendo migliaia di persone a spendere un marea di soldi, il Nepal sarebbe più povero e le montagne sfruttate in modo forse peggiore. Senza il turismo la montagna sfrutta quel poco che ha e spesso quel poco è la sua essenza stessa: le rocce e i minerali che la compongono. Basta guardare quello che succede a casa nostra, sulle Alpi Apuane, dove lo sfruttamento selvaggio delle cave di marmo sta massacrando il territorio. Ma qui gli speleologi e gli alpinisti non generano abbastanza soldi per diventare un’alternativa e quindi tutti compatti a tagliare fette di montagne.
Nonostante la recente tragedia credo che il turismo d’alta quota sia una risorsa importante per il Nepal e che se ben gestito possa conciliare il benessere dei locali con la tutela ambientale. Gli sherpa hanno diritto a garanzie e tutele, come tutti i lavoratori del mondo, e ognuno è libero di spendere i soldi come vuole. Anche se io so che essere trascinato a peso da una guida in cima al mondo non fa le persone più cool. Ma questa è un’altra storia.
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