L’ong Gisha realizza un cortometraggio chiedendo ai cittadini di Tel Aviv di provare a mettersi nei panni dei palestinesi di Gaza
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2013/08/fia.jpg[/author_image] [author_info]di Fiammetta Martegani, da Tel Aviv. Nata a Milano nel 1981 a dal 2009 vive a Tel Aviv. Dal 2012, dopo aver conseguito il titolo di Dottore di Ricerca in Antropologia della Contemporaneità, scrivendo una tesi sulla rappresentazione del soldato nell’arte e nel cinema israeliano, svolge, sempre a Tel Aviv, un Postdottorato in Cinema e Lettaratura Comparata. Nel corso di questi anni è stata corrispondente da Israele per il quotidiano online Peacereporter, il mensile E e il programma radiofonico Caterpillar di Radio2. [/author_info] [/author]
27 aprile 2014 – Gaza-Tel Aviv-Gaza è il titolo di un cortometraggio, diretto da Itamar Rose e girato sul lungomare di Tel Aviv, in cui viene richiesto ad alcuni cittadini israeliani a passeggio di provare a mettersi nei panni degli abitanti di Gaza, impossibilitati da anni ad uscire dalla propria terra, se non per “casi umanitari eccezionali”.
Tra questi rientrano prima di tutto le cure mediche e talvolta l’importazione di beni di prima necessità da Israele, ma viene invece bandita totalmente l’esportazione di beni da Gaza verso Israele e soprattutto la possibilità, per un cittadino di Gaza, di visitare un parente malato o addirittura di partecipare a un funerale, se questo avviene nei Territori Palestinesi.
Itamar ha diretto questo cortometraggio per promuovere l’attività dell’organizzazione non governativa Gisha. Gisha in ebraico significa letteralmente “accesso”, e Sari Bashi e Kenneth Mann, i due avvocati israelo-statunitensi che hanno fondato quest’organizzazione, lo hanno fatto per poter garantire l’accesso dei cittadini palestinesi di Gaza in Israele e in Cisgiordania.
Tutto è cominciato nel 2005, pochi mesi prima del disimpegno unilaterale voluto dall’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon.
All’epoca i due fondatori non avrebbero mai potuto immaginare che, nel corso di quasi dieci anni, da due sarebbero diventati uno staff di 21 professionisti, con tanto di personale internazionale, oltre che a quello locale, rappresentato dai diversi credi religiosi che caratterizzano lo Stato di Israele, ovvero: cristiani, ebrei, musulmani e “persino un druso”, mi racconta Tania Hary, vice direttore di Gisha.
Conosciuto anche come “Centro legale per la libertà e il movimento”, Gisha vede soprattutto nella libertà di movimento l’obiettivo e il punto di accesso principale a istruzione, sanità e opportunità economiche: tre requisiti fondamentali senza i quali nessun cittadino al mondo, non soltanto a Gaza, può costruirsi una vita degna di questo nome.
All’inizio il lavoro consisteva soltanto nell’assistere legalmente gli specifici casi individuali. Oggi invece, accanto a quest’attività principale che continua a essere svolta di caso in caso, Gisha cerca, grazie soprattutto al lavoro mediatico, come nel caso del cortometraggio di Itamar Rose, di sensibilizzare l’opinione pubblica sia israeliana sia internazionale, fino ad arrivare alle lobby parlamentari e al Ministero della Difesa, direttamente responsabile della cosiddetta “separation policy”.
Chiedo a Tania in che cosa consiste esattamente e mi spiega che gli obbiettivi principali sono tre: disimpegno, sicurezza e obbiettivi strategici.
Cominciamo dal primo. La politica di separazione, a detta di Tania, è cominciata già nel 1995, in risposta agli attacchi terroristici durante la Prima Intifada e, conseguentemente, con la costruzione della barriera di difesa.
Ma la situazione è peggiorata drasticamente dal 2005, con il disimpegno dalle colonie, perché da allora i cittadini israeliani si sentono completamente esenti da ogni responsabilità poiché ormai “non è più affar nostro”, come dice Tania. Come se non bastasse, la salita al potere di Hamas nel 2006 ha determinato la condanna all’ergastolo definitiva per la popolazione di Gaza.
Infatti, se prima del 2000, ovvero con lo scoppio della Seconda Intifada, ogni giorno circa 25mila cittadini di Gaza entravano e uscivano regolarmente dalla Striscia, da allora il numero è andato diminuendo drasticamente e dal 2006 si registrano intorno alle 5mese persone al mese, a seconda delle necessità e dei “criteri” di uscita.
E quali sarebbero questi criteri? E qui arriviamo al secondo punto, ovvero quello della “sicurezza”, i cui “criteri”, a detta di Tania, sono spesso arbitrari, per non dire assurdi.
Per esempio?”Per esempio, a causa dello “Student Ban”, per i cittadini di Gaza è praticamente impossibile poter andare a studiare all’estero. All’inizio era stato vietato di andare a studiare nei Territori Palestinesi, poiché l’Università di Ramallah era considerata uno dei centri nevralgici della formazione di cellule terroristiche. Ma per la stessa ragione pochi giorni fa hanno negato a una ragazza di Gaza di poter iscriversi all’Università di Melbourne, in Australia: “E’ più facile avere il permesso di uscire da Gaza per importare merce israeliana che per aver vinto una borsa di studio…”.
Ma in questo caso questa ragazza non potrebbe uscire da Gaza semplicemente attraversando il confine con l’Egitto? Per rispondere a questa domanda Tania srotola sulla sua scrivania la mappa di Gaza. Come ha modo di mostrarmi, gli unici punti di accesso verso e da Gaza sono tre: Erez, Kerem Shalom e Rafah. I primi due sono controllati dall’Esercito Israeliano che dal primo fa passare soltanto civili e dal secondo solo beni di prima necessità.
Il valico di Rafah invece, controllato dalle milizie egiziane, da cui fino al 2013 era permesso far entrare e uscire merce e civili, con l’ascesa al potere del governo di Morsi, che vede di fatto in Hamas il corrispettivo dei Fratelli Musulmani, è stato completamente bloccato, salvo casi “eccezionali”, come durante il pellegrinaggio alla Mecca, che per il governo egiziano a quanto pare è molto più importante che promuovere leducazone e la cultura. Lo stesso vale per i beni di prima necessità.
Ma per quelli ci sono ancora i tunnel? “Praticamente non più”, spiega Tania, “perché, da circa 300 che erano, ormai sono rimasti solamente una decina, e solo perché le milizie egiziane non sono ancora riuscite a finire di scovarli tutti. Per altro la chiusura del confine di Rafah da parte dell’Egitto ha di fatto raddoppiato le richieste di uscita attraverso il confine israeliano, per cui adesso”, si lamenta Tania “ci siamo ritrovati con il doppio del lavoro di prima e con criteri sempre più ristrettivi da dover affrontare”.
Vorrei farle altre domande relative alla situazione in Egitto ma vista la mole di lavoro che ha davanti vado dritta al terzo e ultimo punto, quello dei cosiddetti “obiettivi strategici”.
E qui Tania cerca di accennare un sorriso che tuttavia cela un mare di sconforto. L’elasticità nell’apertura e chiusura dei confini, infatti, varia con il variare dell’intensità del conflitto tra Israele e Gaza. Ma gli obbiettivi politici dell’embargo sono dettati soprattutto dalla comunità internazionale, che da dieci anni sta aspettando che il popolo palestinese torni alle urne, quando le ultime elezioni, in cui Hamas ha vinto venendo democraticamente eletta dalla maggioranza dell’intero popolo palestinese, non sono mai state riconosciute in quanto tali dalla comunità internazionale e per questo hanno inevitabilmente portato alla spaccatura dei due popoli, quello della Cisgiordania e quello di Gaza, e alla salita al potere di due governi, rispettivamente l’Autorità Nazionale Palestinese e Hamas, di fatto entrambi illegittimi.
Chiedo a Tania come si immagina il futuro e mi risponde che se pensa in una prospettiva macroscopica sia lei che tutti coloro che lavorano e sostengono, soprattutto economicamente, un’organizzazione come Gisha, avrebbero già dovuto abbandonare la causa da anni.
Ma poi mi dice che per fortuna ci sono tutte le storie personali, i singoli casi di bambini in fin di vita che possono finalmente avere accesso alle cure mediche che gli permetteranno di continuare a vivere e forse un giorno di poter eleggere, democraticamente, un governo in grado di rappresentare, davvero, il volere e i diritti dei propri cittadini.
Forse un giorno a governare potrebbe essere proprio quella ragazza che sta ancora aspettando il permesso per andare a studiare in Australia. E forse un giorno, grazie a persone come Itamar e Tania, che lavorano per sostenere un’organizzazione come Gisha, anche un’organizzazione come questa non avrà, finalmente, più alcuna ragione di esistere.
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