Vivere da rifugiati e richiedenti asilo a Brescia – seconda puntata
testo di Christian Elia, foto di Livio Senigalliesi
REPORTAGE REALIZZATO GRAZIE AD AMBASCIATA DELLA DEMOCRAZIA LOCALE A ZAVIDOVICI
WWW.LDA-ZAVIDOVICI.ORG
“Non sarà che lei è solo una vittima
che vende il suo trauma?
Mi ha chiesto una biondina di Harvard
Il cui cervello è valutato mezzo milione.
In inglese non lo sapevo dire.
Si rende conto di avere tutte le ragioni?
Nove morti, il sangue che esce dalla membrana del timpano,
quel dimenarsi tra i proiettili.
Tutto sta nella parola trauma.
E questo, si, non sapevo dire in inglese,
ho paura,
è l’unica cosa che vale tra quelle che ho”.
tratto da Trauma Market, di Adisa Basic
28 aprile 2014 – Agostino Zanotti, con la realtà di Adl-Zevidovici, è il motore di questa iniziativa. Nel nome dell’accoglienza diffusa, partecipata, progettuale.
“L’Adl ha deciso nel 2002 di occuparsi di rifugiati. In continuità con il lavoro che l’aveva caratterizzata fin dai tempi dell’accoglienza dei profughi in fuga dalla ex-Jugoslavia. Avevamo già lavorato negli Anni Novanta su un sistema di accoglienza decentrata, perché molti comuni della provincia di Brescia avevano accolto persone in fuga dalla guerra. Abbiamo iniziato con un progetto nella rete Consorzio Italiano di Solidarietà – ICS per le vittime di tortura, formandoci con quella esperienza al tema richiedenti asilo e rifugiati. Prima con il Comune di Brescia abbiamo dato vita a un progetto di accoglienza, anche perché allora c’era solo il Piano Nazionale Asilo. Poi è diventato un progetto Sprar, interrotto al cambio di amministrazione, nel 2008″, spiega Zanotti.
“Solo che il fenomeno non spariva, anzi. Ci siamo rivolti a comuni del circondario, dando vita allo Sprar di Cellatica che comprendeva Cellatica, Roncadelle e Castagnato. Non volevamo, con la nostra iniziativa, rendere invisibili i rifugiati alla città di Brescia, anzi ci attivammo per la funzionalità di una serie di appartamenti nel capoluogo, anche se l’amministrazione non era presente nella rete dello Sprar. Volevamo dimostrare all’amministrazione di centro-destra di Brescia in quegli anni che si poteva lavorare sull’accoglienza e sul rispetto delle persone. Ma non c’è stato alcun dialogo, fino alla situazione assurda dell’Ena: nella città di Brescia sono stati accolti circa 160 profughi dal Nord Africa, in vari alberghi, ma il Comune non ha saputo gestire in modo intelligente i fondi che vennero stanziati nel 2011, fondi attraverso i quali avrebbe potuto rinnovare i centri di prima accoglienza, creare una rete adeguata, una rete di servizi territoriali, senza spendere un soldo delle casse comunali. Un’occasione persa, perché si poteva lavorare oltre l’emergenza, con un importo economico attorno ai 4 milioni di euro. Soldi che sono andati tutti ai privati”.
“L’Adl ha presentato un progetto, siamo entrati nell’Ena, spingendo le linee guida Sprar, ma è stata un’esperienza per noi davvero negativa, sotto diversi aspetti. L’Ena ha creato un sistema a doppio binario: da un lato i rifugiati inseriti nel sistema Sprar, un circuito virtuoso, con contratti di lavoro e progettualità, dall’altro l’Ena, che per come era stato pensato creava solo assistenzialismo, con persone bloccate in luoghi senza alcuna prospettiva, non seguite, abbandonate negli alberghi, con costi elevatissimi. Un meccanismo, quello dell’emergenza, che equiparava il profugo a un strumento di profitto. Anche per noi l’Ena ha generato avanzi economici, perché in quella situazione saltano tutti i meccanismi del controllo diretto. Le nostre sono state utilizzate per altre emergenze, ma il sistema Ena ha costretto le persone provenienti dalla Libia, inserite in un percorso di richiedenti asilo, a documentare davanti alla Commissione territoriale competente situazioni che magari oramai aveva abbandonato da anni. Alcuni avevano lasciato il paese di origine da tempo, dovevano recuperare una storia vecchia di anni e a molti di loro questo ha causato il diniego. E il permesso umanitario è arrivato molto in ritardo, dopo che per tanto tempo queste persone erano state bloccate”. Spiega Zanotti. Che disegna un quadro generale in bianco e nero.
“Manca in Italia un sistema dell’asilo. Ci sono meccanismi che tentano di risolvere alcune situazioni, diverso da un sistema integrato, sia pratico che politico. Prima di tutto bisogna produrre una legge quadro sul diritto d’asilo, che lo regolamenti e lo finanzi in modo stabile, dal primo sbarco al progetto di accoglienza sul territorio. Un sistema funzionante è quello che riesce a mettere in rete i vari attori istituzionali interessati dal problema, in modo da creare reali strumenti d’autonomia per aiutare queste persone. Anche l’Anci dovrebbe collaborare di più, coinvolgendo i comuni per elaborare un sistema locale di accoglienza, svincolato ai singoli umori magari elettorali: un aspetto sarebbe l’obbligatorietà del sistema di accoglienza, ma senza che passi il messaggio sbagliato, la coercizione. Piuttosto che l’obbligatorietà del singolo comune si punta all’obbligatorietà per i distretti, in modo che ci sia un sistema, senza comuni isolati ma una rete di tavoli territoriali. Non basta solo questo, perché se per la casa qualcosa si riesce a fare, c’è anche la richiesta di lavoro da parte dei beneficiari. E adesso trovare lavoro è durissima. Ecco che Dublino II, che blocca i richiedenti asilo nel paese di arrivo, andrebbe superato. Perché si potrebbe lavorare a un sistema di inserimento lavorativo europeo, altrimenti diventa difficile”.
“Le strutture dello Stato, solo nell’ultimo anno, come la Prefettura e il Comune, si sono adeguatamente impegnate sul tema dei rifugiati. Per anni il problema non è stato compreso, è stato ignorato. Ancora oggi un rifugiato, in un ufficio pubblico, trova grandi problemi nel far valere i suoi diritti. Nell’opinione pubblica il migrante e il rifugiato vengono raccontati allo stesso modo, come predatori di risorse, elementi di disordine pubblico. Anni di una comunicazione negativa verso gli immigrati ha prodotto paura e incomprensione, senza mai chiarire che molti di loro sono portatori di un diritto, ai quali l’Italia è tenuta a dare protezione. Non a caso l’Europa, per questo, ci ha condannato spesso. D’altronde il rifugiato corrisponde a un rimosso collettivo: spesso il cittadino non si rende conto che nel proprio agire c’è anche un grado di responsabilità nell’arrivo di queste persone. In fuga da guerre, dittature, persecuzioni, provenienti magari da regioni di grande importanze strategica, magari a livello energetico, sono gli ‘effetti collaterali’ di politiche capitalistiche delle quali siamo parte. Non li guardo, non li voglio vedere, perché se li vedo dovrei interrogarmi sulla qualità della mia vita e sui costi umani che comporta altrove. L’accoglienza non è assistenzialismo”.
Rispetto alla risposta della città, Zanotti traccia un bilancio interlocutorio: “Negli ultimi anni devo dire che è buona. Noi usiamo le borse lavoro: strumenti simili ai tirocini formativi, che permettono all’azienda di avere una persona senza costi aggiuntivi da formare per tre mesi, a cicli che possono raggiungere un anno. In questo modo si ottiene un doppio risultato: l’imprenditore non corre rischi e le persone possono iniziare a costruire un percorso di reale autonomia. E’ normale che adesso la situazione è difficile, a cominciare dalle agenzie di lavoro, che sono in grande difficoltà. Al beneficiario va dato supporto, ma anche consapevolezza. Spiegarlo a queste persone, in fuga da guerre e carestie, a volte è difficile. Esiste una sorta di immaginario dorato legato alla situazione di arrivo, che in questo momento è molto lontano dalla realtà. La famiglia di origine preme, chiede, fa pressione. Alcuni cedono”.
“Brescia, come città, potrebbe comunque fare molto di più, anche se il giudizio non è negativo. Su questo territorio esiste una forte pressione, resa ancora più aspra dalla enorme burocratizzazione dei processi, che genera stress e tensione. Il permesso umanitario, in questo quadro, non aiuta, aumentando la precarietà e la confusione. E’ stato uno strumento abusato, che l’Europa non riconosce, che non risolve i problemi. In questo senso, per noi, la ciclofficina è un tentativo di fare un salto di qualità. La vicinanza ci ha insegnato le potenzialità di queste persone, che vanno ascoltate singolarmente, per coglierne e sostenerne le competenze. Si tenta di lavorare a percorsi imprenditoriali, collettivi e partecipati, e in questo senso lo strumento della cooperativa è stato capito anche dai beneficiari. Che a loro volta, giorno per giorno, devono confermarsi in un percorso di affidabilità, di responsabilizzazione. Con i ragazzi della ciclofficina è accaduto questo: si tratta del risultato finale di un percorso fatto assieme, tra consapevolezza del diritto e senso del dovere. Ma la parola chiave è complessità: non ci sono ricette garantite. Non mi sento di condannare chi fa scelte differenti, perché il disagio porta alla disperazione. Il problema non è loro, ma di una società che crea marginalità, nell’indifferenza. Auspico che anche queste situazioni di lotta e protesta generino un percorso virtuoso, di crescita collettiva, con risposte pragmatiche ai bisogni reali, nella legalità”.
E per qualcuno la vita cambia davvero. Peter arriva anticipato da un sorriso e da un caschetto di treccine, una calamita di simpatia.
“Sono un apprendista pizzaiolo! Ogni giorno imparo qualcosa di nuovo, mi alleno anche a casa, ci tengo a fare bene! E’ difficile, ma lo è per tutti. Vivo a Breno, la mia passione è la musica: costruire gli strumenti, suonarli, insegnare ai ragazzini nelle scuole a seguire le storie che racconto, le storie della mia tradizione, accompagnandole con musica e teatro, con il ballo e il senso del ritmo. Insegnare è la cosa che amo di più, ma mi do da fare, per essere indipendente e badare a me stesso e alla mia famiglia, che è ancora in Kenya. Collaboro anche con un negozio di borse, dove porto le mie creazioni, che faccio a mano. Ho 25 anni, ma mi hanno sbagliato la data sui documenti e risulto più vecchio, mi servono i soldi anche per i documenti corretti dal Kenya. Sono cresciuto per strada: mia madre è andata via quando ero piccolo, mio padre faceva il camionista. Da quando ho 15 anni sono in giro, cavandomela da solo. Sono stato in Canada, in Grecia, sulle navi da crociera. Ho fatto di tutto, accompagnato sempre dalla passione per la musica e per gli strumenti musicali. In Kenya, però, non posso tornare. La mia famiglia è finita nel mirino dei Mungiki, un’organizzazione criminale del mio paese. Loro sono sempre convinti che ci siano soldi da estorcere, ricattando e minacciando. Se torno passo un guaio”, racconta.
“Quando sono arrivato in Italia sapevo solo scrivere il mio nome. Sono partito con quel che avevo, neanche un ricambio di pantaloni. Giunto a Roma dormivo sui treni, non capivo nulla, mi sentivo invisibile. Prendevo un treno, ogni tanto, ma non sapevo neanche dove arrivavo. Fino a quando sono arrivato a Milano e ho trovato un connazionale che mi ha dato una mano, portandomi a Vercelli, dove ho conosciuto un uomo. Non ricordo il suo nome, mi spiace tanto. Vorrei rivederlo, ringraziarlo. Lui ha cambiato la mia vita. Mi ha parlato di Casa Giona, a Breno. Il corso di italiano, la scuola. Dopo un anno, quando la Commissione di Milano ha accolto la mia richiesta, ho iniziato la mia nuova vita. Ho una compagna, sono felice, anche se qui ho dovuto capire tante cose del vostro modo di vivere. Ho imparato che devi fare bene le cose, farle in fretta. Certo Breno è diverso da Nairobi, dove tutti vivono per strada, ma sto bene, anche se voi non avete mai tempo. I razzisti esistono, certo, ma è solo un problema di educazione. Intorno a me incontro tanti che sono come ero io: stanchi, disperati, in fuga. Qualcuno lo ricordo con la Bibbia, e l’ho ritrovato alcolizzato. Tentano di lasciare l’Italia, ma li rimandano qui, sempre più spenti. Dovrebbero lasciare libera la gente di viaggiare, di cercare la pace. Lo avete fatto anche voi, no? Perché pretendete che noi, che veniamo da paesi a cui hanno tolto tutto, non possiamo farlo?”.
A Breno, per i rifugiati, si è creato un percorso di lavoro tra Casa Giona e la cooperativa sociale K-Pax Onlus. Marco Zanetta, da anni, si occupa dei rifugiati. “Il progetto Sprar a Breno è nato nel 2004, quando ancora la coop K-Pax non esisteva. C’era e c’è ancora il progetto Casa Giona, una struttura di accoglienza gestita dalla parrocchia di San Salvatore. Nato nel 2004, quando ero responsabile dei progetti e operatore a Casa Giona, il Comune di Brescia ci ha chiesto di provare ad attivare un progetto finalizzato all’inserimento di due rifugiati. Siamo stati il primo centro, il primo braccio operativo del Comune di Brescia. Era nato lo sportello Richiedenti Asilo e Rifugiati, furono loro a contattarci. I due ragazzi del Niger dell’epoca sono ancora a Breno, inseriti e con una vita felice. Tutto è iniziato così. Nel 2004 è uscito il bando Sprar del fondo 8 per mille: il Comune di Breno e quello di Brescia ci hanno spinto a partecipare e lo abbiamo vinto e vennero attivati 16 posti, poi 20″.
“Un percorso di prima accoglienza, osservazione, tutela e conoscenza, in comunità alloggio, con operatori presenti tutto il giorno. Poi negli appartamenti seconda accoglienza, che si sono estesi, e abbiamo costituito la cooperativa nel 2008, con i 30mila sbarchi di quell’anno. Ampliammo di dieci posti. Da allora lo Sprar di Breno è cresciuto costantemente, con i due enti gestori che lavorano assieme. Nell’Ena abbiamo lavorato nell’emergenza a Montecampione e dintorni, fino a 25 persone, lavorando intensamente con dodici comuni della Val Camonica, per dare 4-5 richiedenti asilo per comune. L’obiettivo era l’accoglienza diffusa, una rete con altre realtà come la nostra. Parliamo di persone abbandonate a quasi duemila metri, bisognava accoglierli con elevati standard di qualità, non in albergo. E’ stata un’opportunità di coinvolgimento di territori che mai avevano accolto richiedenti asilo. Adesso questi comuni sono partner dello Sprar. Questo è stato il percorso di crescita. Abbiamo ora 35 posti ordinari e 5 per il disagio mentale in Val Camonica. Cento posti complessivi sullo Sprar in tutto il territorio. Dobbiamo lavorare per mettere in campo il sistema pre-Sprar, come si chiede ai comuni dall’ultima circolare del ministero. Anche per i rimpatri da Dublino II. L’idea è quella di sviluppare in primo luogo con la Prefettura, come è stato sperimentato a Trieste, una prima accoglienza di emergenza, per non lasciare i richiedenti asilo sulla strada o sui treni in attesa di entrare nel percorso Sprar. Un sistema attivabile in 24 ore, con tutela legale, accoglienza con standard elevati. Questo è l’orizzonte da replicare nelle province e nelle regioni. Prima accoglienza, poi seconda accoglienza affidata agli Sprar”.
Un sistema che sarebbe più forte se le realtà italiane fossero in rete, condividendo pratiche e informazioni.
“Esistono reti, come Europa Asilo, di gestori da Trieste fino a Cosenza. Siamo in rete anche con altri, ma dopo Ena ci sono nuovi soggetti e nuovi gestori, tutti da verificare. Un coordinamento regionale è il primo passo per una rete di nodi regionali. Un’antenna sul territorio, in rete. Con un confronto nazionale. La rete Sprar ha oltre 400 tra comuni, enti e progetti: difficile tenerli assieme. Bisogna valutare il 2013, poi si vedrà, ma si deve andare verso un sistema decentrato regionale dell’accoglienza, da mettere poi in rete nazionale. La realtà della Lombardia è diversa dal Molise, quindi bisogna essere in grado di adattare le situazioni. Di sicuro vanno superate la macro-strutture: migliaia di persone parcheggiate nei CARA creano una situazione davvero dannosa per i richiedenti asilo. Noi vogliamo superare le grandi strutture, fino ad abolire i CARA, lavorando su una rete capillare sul territorio. Chi arriva, dopo 15-20 giorni necessari all’ identificazione, alla prima accoglienza e a uno screening sanitario, deve essere poi trasferito agli Sprar. Nel 2013 si è provato con i comuni che hanno aderito, con un ponte aereo da Lampedusa. Lavorare in emergenza, però, comporta sempre costi elevatissimi. Ena lo ha insegnato, si sperpera il denaro pubblico. Un sistema integrato, con posti di accoglienza ordinari e straordinari, aiuta anche a non sprecare. Il nuovo progetto lo prevede: oltre ai posti ordinari, i comuni aderenti devono prevedere almeno il 30 percento di posti straordinari attivabili in pochi giorni. Per evitare situazioni come quella di Augusta, in Sicilia, dove migliaia di persone son rimaste a bivaccare al porto o in strutture private che ci speculano. Bisogna avere strutture pronte per eventuali afflussi particolari. Con posti speciali per disabili, minori non accompagnati e tutte le altre categorie vulnerabili. Questo potrebbe funzionare, almeno fino a 20mila posti”.
Ma quale è stato alla fine l’errore della gestione di Ena? Secondo Zanetta ”rispetto a Ena il primo errore è stato quello di affidare la gestione dell’emergenza alla Protezione Civile, con dei costi pro capite e pro die elevati, fuori misura rispetto agli standard Sprar. Ci poteva stare una soluzione temporanea, magari un campo, ma hanno affidato l’accoglienza, il trasporto e l’affido a strutture alberghiere con standard minimi. E’ stato un disastro, c’era un sistema Sprar che funzionava, ma è stato ignorato. Hanno preferito aumentare l’accisa sulla benzina, aumentando il conflitto sociale, per trovare le risorse da spendere. L’accisa è rimasta, per fare cassa, ma senza che confluiscano nei progetti. Sarebbe interessante sapere quanti posti di lavoro genera il sistema Sprar, perché si parla sempre in senso negativo di certi problemi. Invece creano anche lavoro, al netto del controllo per garantire standard elevati per i lavoratori del settore e per i beneficiari. Adesso è dura, il conflitto sociale è forte, a Brescia come in Italia, come in Europa. Quando c’è una crisi, gli ultimi sono i primi a pagare, nonostante la protezione internazionale sia un diritto e un dovere. Non aiuta anche l’informazione manipolata, che equipara le situazioni, tra i migranti economici e i profughi. La domanda di asilo è oggetto di attacchi di campagne politiche delle destre, e la prossima campagna elettorale nei comuni sarà una guerra contro l’accoglienza, mettendo tutti nello stesso calderone. E il conflitto si acuirà ancora di più, ad hoc. E’ difficile sperare in un miglioramento, ma bisogna ricominciare a lavorare nei quartieri, dalle scuole, dall’inizio insomma, per lavorare sul futuro su questo tema. Coinvolgendo la popolazione adulta, perché son loro che educano i figli più della scuola. Anche perché la crisi economica rende le persone più aggressive, più autoreferenziali”.
Un metodo di lavoro, una progettualità. Ma molti ne restano esclusi e ci son reazioni di insoddisfazione e rabbia, tra i rifugiati. Che magari occupano uno stabile abbandonato per avere un tetto.
“A Brescia si parla di realtà di un certo tipo, anche per dimensioni, ma a Napoli, Roma, Milano la situazione di disagio è grave. Le occupazioni sono la naturale conseguenza di un mancato sistema di accoglienza. E se non si supera Dublino II, questa situazione potrà solo peggiorare, con sempre più persone costrette a vivere di espedienti. A Torino hanno occupato le case delle Olimpiadi del 2006, dove il Comune riconoscerà la residenza degli occupanti, in gran parte richiedenti asilo e rifugiati. E’ un’idea: percorsi di co-housing e housing sociale, organizzato, con assegnazione di alloggi, è una strada sulla quale lavorare. I patrimoni immobiliari dei comuni sono onerosi e affidati ad agenzie regionali che non sempre lo gestiscono bene. Immobili abbandonati, per mancanza delle risorse per ristrutturarli. I comuni devono capire che è un’opportunità, per non far speculare il privato, con un progetto di ristrutturazione su più anni, un circuito virtuoso, investi su te stesso”.
Via San Bartolomeo, a Brescia, è una grande arteria che taglia la città. Trafficata, viva. Spunta tra i palazzi l’Eurolavaggio – Doctor Car Wash, di Stefano Chiesa. Una struttura all’avanguardia, altamente automatizzata, accogliente e scintillante. Chiesa è uno di quegli imprenditori che ha dato una mano a realtà come K-Pax e Adl, che alla fine di un percorso di accoglienza e formazione hanno bisogno di opportunità lavorative per i rifugiati, per renderli indipendenti.
“Sono ragazzi che si danno da fare, questo mi interessa. Il resto non conta. Se a qualcuno non va bene, non posso farci nulla. Trovo spesso persone viziate, loro lavorano tanto. Certo, magari devo spiegare, e rispiegare, non tutti vanno bene. Ma quella è la vita, il lavoro. Mi fa piacere dare una mano. I problemi di questo paese sono ben altri, se non fossi soffocato dallo Stato ne aprirei altri di autolavaggi, ma tra tasse e burocrazia è impossibile. Il momento è davvero duro”, spiega Chiesa, con fare energico. Un’altra azienda che si è prestata, anche in passato, all’inserimento delle borse lavoro è la Oil-Cilindro. Padre e figlio, azienda familiare. Un capannone che lavora, tute blu, che rendono uguali operai neri e bianchi, fianco a fianco. “Prima avevamo commesse che ci permettevano di programmare il lavoro per un sei mesi, ora ci muoviamo di mese in mese. Ma non molliamo”, spiega il titolare. “Noi ci troviamo bene, alcuni di loro ci sono da anni. Questo è un lavoro difficile, bisogna stare attenti, ci si può fare anche male. Tra i ragazzi italiani e stranieri non ho mai avuto problemi, certo, ci sono differenze, ma lavorare gomito a gomito mette tutti sulla stessa barca. Adesso si fa fatica, qualcuno mi ha anche detto di dar lavoro agli italiani, ma che c’entra, una persona è una persona”.
[continua]
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