Sono circa 200mila i profughi siriani a Istanbul. In assenza di tutele e assistenza, ai più deboli non resta che un angolo di marciapiede da cui tendere la mano.
[author] [author_image timthumb=’on’]https://www.qcodemag.it/wp-content/uploads/2014/04/sesana.jpg[/author_image] [author_info]di Ilaria Roberta Sesana. Classe 1981, alle spalle una laurea in Storia Contemporanea e un biennio all’IFG “Carlo de Martino”. Ama scovare storie, pezzetti di vita che permettano di raccontare e capire un po’ meglio la realtà che ci circonda. Collabora con Avvenire, Popoli, Jesus e Altreconomia.[/author_info] [/author]
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30 aprile 2014 – Questa è la puntata d’esordio di un breve diario: cronache di un viaggio in Turchia, da Istanbul fino al confine sud. Terra di transito dal Medio Orientte all’Europa, la Turchia è il primo imbuto da cui passano i profughi in fuga dalle bombe di Damasco. Il loro flusso ha destabilizzato un già pecario sistema d’accoglienza.
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“Souria, Souria”. Un uomo tende la mano per chiedere ai passanti un piccolo aiuto. In testa una kefiah rossa e con l’altra mano mostra il passaporto blu che certifica la sua provenienza. Lo tiene ben aperto per dimostrare che sì, lui è proprio siriano. In fuga da una guerra crudele, Hassan ha abbandonato la sua Aleppo con la moglie e la figlia di quattro anni.
A Istanbul ha trovato protezione dalle bombe che hanno distrutto la sua casa, ma non dalla fame e dalla miseria. Ai piedi delle due donne, un foglio di giornale su cui sono esposti dei pacchetti di fazzoletti: debole tentativo di raccogliere qualche moneta. “Non abbiamo soldi, dormiamo in un parco”. Hassan conosce pochissime parole in inglese, ma la disperazione del suo sguardo comunica tutto quello che c’è da sapere.
Come tanti altri rifugiati siriani in città, Hasan tiene in bella vista il passaporto. Per alcuni abitanti di Istanbul molti dei mendicanti che da qualche tempo affollano le strade sono degli impostori: non siriani in fuga dal regime di Assad, ma curdi che si spacciano per profughi per ottenere un’elemosina più generosa. Il libretto dalla copertina blu con l’aquila d’argento è la prova della loro disperazione.
La famiglia di Hasan ha trovato riparo in un angolo soleggiato di una strada, a poche decine di metri da Istiklal caddesi la via dello shoping e delle vetrine griffate. Basta allontanarsi e camminare per pochi minuti per imbattersi in un’altra famiglia: un uomo, due bambini scalzi, una donna che allatta un neonato al seno.
Sono circa 200mila i profughi siriani che vivono a Istanbul, in tutta la Turchia il numero di rifugiati si avvicina al milione di persone.
“Circa 250mila profughi siriani vivono nei campi allestiti dal Governo lungo il confine meridionale del Paese. Ma i campi ormai sono pieni, non ci sono più posti”, spiega Oyku Tumer, avvocato dell’Helsinki citizen assembly, associazione impegnata per la tutela dei diritti dei migranti e dei richiedenti asilo.
Secondo alcune stime sarebbero circa 750mila i rifugiati siriani che vivono al di fuori del sistema dei campi. Malgrado godano di maggiori libertà rispetto ai richiedenti asilo di altri Paesi, le loro condizioni di vita restano molto difficili: ottenere un permesso di lavoro e un’occupazione dignitosa quasi impossibile. Non resta che il lavoro nero, senza tutele, senza diritti e con paghe da fame. Ma per i più poveri, i più deboli non resta che un angolo di marciapiede da cui tendere la mano.
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